Inverno?

In una notte d’inverno mi svegliai da un tenue torpore. Il freddo abbracciante, entrando piano, di soppiatto, fino al nocciolo più profondo della mia accogliente dimora, era giunto anch’esso, a scaldarmi il cuore: neve! Cade, la neve, oh neve, candida e pura giù dal cielo. Si posa, come un bianco airone sulle ghiacciate acque, e le ammanta di un tenero manto bianco. Non mi ero mai spinto così tanto sotto al ghiaccio, ma, com’era avvenuto, il gelo raggiunge sempre chiunque si nasconda da esso: viaggia, da corpo in corpo, come se partisse dalla più remota stella spenta, e, solo infine, giunto sulla nostra pelle, possa finalmente spegnersi in calore. Mi alzai leggero da quel giaciglio ormai invernale, e indossato il mio mantello nero, uscii nella luce accecante del mattino innevato. Brilla la neve, oh neve… Dai miei occhi una dolce lacrima, per l’attacco dell’aria secca scende, docile segue la linea di uno zigomo, e ormai depurata dal sale che vi abita, si disperde nella mia barba. Va chissà dove a terra, sulla neve. Oh, neve. Attorno alla mia passeggiata si odono vari canti, uno più soave dell’altro, canti di cigni, o di pettirossi? Non è di poca importanza. Mi fermo a vedere un fiore. È ancora troppo freddo per lui, ma, eccolo, che dalla terra dura e compatta egli sale, preannuncia un disgelo, vive. O forse, solo, per il suo ultimo giorno brilla più che mai la sua corolla? Brilla come degli occhi, occhi che tanto tempo fa brillavano. È così lontano il tempo vicino. È passato, è risucchiato da una bufera di neve dopo l’altra, lontano… Dove? Oh, neve. Ne sento il profumo, ne tocco il crine, ne contemplo la forma. Per ore e ore, fisso in una radura osservo quella antica figura, così viva e morta che nemmeno uno spettro potrebbe gareggiarci in verità. Poi un sogno: un raggio di sole scende… Che suono fa la luce del sole? E la nebbia, che lenta dai campi distanti monta sul suo plumbeo cavallo, cosa ha da dirci? Immaginai come un soffio fragrante, appena spumeggiante: come spirerebbe un dolce che sale col lievito, lambito appena dalle onde di un calmo mare. E il sole, oh sole! Immaginai un suono come di un pomolo di bronzo che scorre su una ciotola dello stesso materiale, un suono abbastanza chiaro, ma dolce, mai fastidioso. Era così ingiusto non poter sentire quei suoni! Mi abbattei a terra, rannicchiato come in un ventre. Il suo respiro, calmo mi diede un po’ di pace. Avrei voluto restare lì per anni… Ma il suono dei ricordi, vorticoso dentro di me, si stava troppo addensando: nella mia coscienza tutto si muoveva, caoticamente. C’era un nucleo fisso, al centro del ciclone però, dove piccole e leggere parti di sogno carezzavano il mio io. Più ci si allontanava da questo centro, più un oceano grosso e impetuoso avvampava, fino a giungere agli estremi limiti, dove le parti più grosse di memoria vorticavano ormai lente, tranquille. Quasi oscillanti. Preso da una musica dolcissima e fatale attraversai tutto quell’oceano, e bagnatomi nella mia storia, scelsi. Mi rialzai da terra, corsi, verso casa, e inizia a vivere. A vivere davvero, il freddo non era più solo qualcosa di esterno, qualcosa che viene per diventare calore. Era finalmente un momento fondamentale, tutto era fondamentale. Qualunque cosa entrasse o uscisse da me, tutto doveva avere una direzione. Non si sarebbe più sporcato di elementi rifrangenti, come il ghiaccio. Che la neve copriva così bene, oh neve! Perché, perchè cancelli gli errori dell’uomo? Sono essi che devono spingerci al meglio… Da peggio che eravamo prima. Sospirai. Presi una tazza di tea e osservai fuori. Aveva ripreso a nevicare: una infinita moltitudine di caratteri danzavano là fuori. Incerto accesi il fuoco, e presi un secchiello di neve da fuori, lo posi alla giusta distanza dal focolare perché non si spegnesse. Avevo nel mio salotto il calore e il freddo che mi abbracciavano insieme: era magnifico. Sorrisi, e lievemente aprii il mio uscio. Entrò neve, sole, vento, erbacce, piccoli volatili, un coniglio, uomini, insetti, foglie secche e foglie nuove… In una settimana passarono tre anni, e poi passarono gli amici, gli amori. Questo strano regno non era poi così abbandonato. Il villaggio ogni mattina viveva, a modo suo. E tutto scorreva normale, come sempre. Mentre attimi scomparivano e si cancellavano l’uno con l’altro, presi a tagliare l’aria, come avevo visto fare ad un piccolo stecchetto incandescente nel fumo: ogni particella era, e si applicava nel suo passaggio. Il bastoncino correva, e poteva finire il suo viaggio o accendendo il fuoco del mio caminetto, o spegnendosi per l’aria fredda che gli correva attorno, sopra il fumo. Lo buttai nella paglia quel bastoncino! Si, così feci, e alcune sterpaglie presero fuoco, altre erano ormai bagnate ed inservibili, ma altre scintille si unirono alla mia e alla fine un bel fuoco canticchiava nel mio salone. Accendendo il fuoco, avevo vissuto, avevo sprizzato luce, l’avevo potuta vedere, poiché senza una luce non si può proprio nè vedere il buio, nè altra luce. E così trovai la mia luce. Danzavamo in cielo, sopra ogni cosa che non fosse su con noi, proprio come l’aria calda che sale, e lascia ai suoi margini quella fredda. Oh, neve: Questa storia non finisce con una luce che si spegne, ma con una brace ed una promessa futura.Ora che ero insieme combustibile e fuoco, e che la mia luce lo era con me, potevo finalmente dire che avevo compiuto la mia natura.

L’indicibile narrato

Come si può ritornare all’autenticità? Fino a quanto le nostre reali caratterizzazioni sono state cambiate dall’esterno e dall’esperienza? Sempre che esista una tale essenza. E come possiamo capire quando non siamo autentici? Io credo che in certe situazioni, il dolore, la commiserazione, la sensazione che tutto quello che ci circonda sia irreale, possano manifestarci la protesta di un qualcosa che, dentro di noi, vorrebbe sbocciare, ma bloccato, non volontariamente si spera, da eventi, accidenti, esperienze o credenze è rimasto incastrato. Esistono falsi problemi, il loro problema è che non esistono. Ma qualcosa che è falso, se creduto, può avere una forza ben maggiore del vero. Così, prestando una gigantesca attenzione, dobbiamo ammettere la maggiore semplicità e verità dell’irrazionale, contro il dissimulatore, quando vuole, razionale. Ma, se l’uomo si dice essere caratterizzato dalla sua ragione, come può essere tutto un errore? Se forse, andiamo più a fondo troveremo la risposta. Frenare le passioni, questo lo mettiamo da parte, quello a cui penso io sono le sensazioni, le emozioni, che, come spiragli chiusi da una selva di intricate radici, a volte emergono e ci colpiscono con violenza nella nostra normale visone del mondo. Come l’intuizione che nel momento in cui emerge stupisce persino la così tanto declamata ragione. Cosa c’è là sotto che pulsa? Se consideriamo l’autentico come l’unione del nostro carattere con una capacità ragionativa di un certo tipo, l’unico modo per mantenere l’autenticità deve essere fidarsi della propria capacità emotiva, tanto di quella cognitiva. E siamo sempre bombardati da emozioni, solo che la vita di sempre ce le nasconde impunentemente sotto agli occhi. Dovremmo solo aprirci a noi stessi: ecco che le cose prendono un senso diverso, è uno stato speciale. Ma ci tengo a chiarire, non è incoscienza o insensatezza, no. È coscienza di sè. Ecco: tra questo fantasioso dualismo postoci dalla storia tra ragione e sentimento appare un terzo stadio: la consapevolezza, l’avvertenza! Noi fondiamo la sensazione che il mondo ci dà con la cognizione che noi verso esso affacciamo. Da questo incontro, nel punto più denso in cui quello che direi “senso dell’apertura” si genera e si allarga verso ogni particella del nostro essere, ecco, appare la pace! Non c’è più io e il mondo, ci siamo noi, che agiamo consolidamente. È come rendersi conto dell’inesistenza della struttura strana e perturbante che ci circonda sempre: il mondo come lo conosciamo crolla ed emerge un nuovo impegno dell’essere. Non è più essere, è autentico e basta. È il tutto che funziona in maniera naturale. Non necessita di nulla, se non di tutto quello che lo lascia stare com’è. È come smascherare la realtà e tornare desti da un sogno che nulla ha a che fare con ciò che realmente dovrebbe essere un sogno. Ma è davvero difficile restare dalla parte di “questo” perché è un mondo naturale vuoto, mancano le persone che sono necessarie a viverci, poiché è vero che l’uomo deve vivere per natura in natura con altri membri naturali. Allora si deve aspettare di rinvenire l’autenticità in altri uomini. E alcuni che la seguono, senza nemmeno essere mai stati fregati ci sono. Sono loro gli eroi che dovremmo seguire! Quelli che per natura seguono la loro autenticità, quelli che non si sono mai fatto corrompere dal falso di questa landa: una faccia viscida e scorrevole. Loro vivono ogni momento come loro stessi, si accompagnano alla spontaneità senza alcuno sforzo. Sanno cosa vogliono e combattono per averlo, sanno cosa sono, e lo applicano. E se qualcosa li scuote, se pensano di aver trovato qualcosa di migliore, senza problemi, con grande onestà cambiano. Si fidano l’uno dell’altro, perché non hanno motivo di fare qualcosa che sarebbe totalmente contro il loro proprio amore per la loro umanità. E quindi, sanno sia sentire, che ragionare. Se queste parole messe tutte insieme possono non avere un senso, il senso da trovare è la complessità della possibilità di definire la natura e l’autenticità. In quest’epoca non è facile riuscire ad essere naturali, ma la spia della nostra condizione saranno sempre le nostre impressioni più forti, e quando ne intuiremo una, e poi l’altra, una ad una, potremo allora decostruire questa esistenza mascherata che una storia incisa da artifici ci ha messo davanti agli occhi. Se possiamo, uomini di tutto il mondo, ciascuno nella sua varietà, riprendiamoci la nostra natura. Proviamo a sentirla, e, cancellando ogni sentore di ipocrisia, liberiamo finalmente quella che oserei definire infine la nostra anima.

L’ambigua sfera della modernità

Come una foresta di cachi d’inverno: un florido pavimento di macerie violacee a terra, ma sugli alberi, spogli, ossei, di un marrone scuro, ricchi di frutti di un arancio solare; così gli uomini, impauriti per il freddo, si alzano pur su una terra consunta fin nelle loro anime. Siamo ancora dentro a quella sfera vitrea che è la modernità… Ma se noi riuscissimo a scalfirla e ad uscirne, cosa troveremmo? Per un momento, con tutta la nostra forza sforziamoci di immaginare: ecco, rotta la sfera il piccolo uomo si trova il vuoto davanti… In un esplosione di frammenti luccicanti muove il primo mal sicuro passo nell’indeterminato infinito bianco. Sembra di cadere al piccolo uomo, ma oltre la modernità non c’è gravità. Può come danzare nell’atmosfera. Inizia a camminare allora, sempre a passi più lunghi, e incantato si scopre a ballare un valzer. Attorno a lui inizia a definirsi un piccolo universo: stelle fisse e pianeti appaiono, l’orientamento si intensifica, ci sono anche corpi casuali: comete, meteore… Il nostro piccolo uomo esplora finalmente un mondo nuovo, interagisce in modo naturale con i corpi che incontra, è attratto verso alcuni, e altri li attrae esso stesso. Non è solo il piccolo uomo, no. E ha negli occhi mille immagini. Dopo un po’ di tempo anche lui diviene parte di quel meraviglioso mondo, si ferma in una certa zona, con certi satelliti e certi vicini. Con una certa visuale di tutto quello che lo circonda. Che non è però limitata. No. Fuori dalla modernità si può osservare, carezzare, l’infinito. Non c’è immagine che possa sfuggire al piccolo uomo, che ormai è già una stella, o un pianeta, forse? Passando potremmo vederlo. Dobbiamo solo poter fare quel primo passo nel vuoto, senza paura, perché non è il vuoto ad essere incredibile, ma è la modernità ad apparire tale dopo averlo respirato. Ci sono talmente tante cose che si devono imparare nella storia che non basterebbero nove vite ad impararle tutte, ma il fatto è che evidentemente la nostra natura è attratta da certe cose più che da altre. Infatti ciascuno ha in sè un certo numero di potenza che va realizzato nella sua più ampia sfera, questa volta, una sfera vera. Ma ribattiamo, quasi spregiudicatamente, non sono forse lo stesso numero delle cose da sapere, moltiplicato per se stesso, se non di più, le cose da poter immaginare? Ecco perché non serve cercare chissà cosa per conoscere la nostra natura. Basta osservare un sasso, anche per pochi attimi ed ecco, che da sola, una concezione dell’esistenza e della vita viene all’essere. E di sassi ce ne sono un’infinità sterminata. Così di piante ed animali. Anche di uomini, in effetti. Ma l’uomo ha un effetto diverso nella nostra storia, esso è, noi siamo, con la nostra incredibile capacità, il ricettacolo per moltiplicare in maniera insostenibile gli spunti di pensiero. E le relazioni tra persone sono il luogo in cui abitiamo. Perciò si deve saper scegliere, ma al contempo, si deve saper distinguere la materia da qualità essenziali —Quelle che sono, per natura, nella definizione del concetto di uomo— e quelle accidentali —Elemneti incredibili come il carattere, le idee… Cose particolari che differenziano ciascuno di noi e creano la vera molteplicità. Quella più immediatamente percepibile, perciò la più affascinante e pericolosa insieme— una volta scoperto tutto questo, il primo passo nel vuoto è fatto. Si deve poi iniziare a danzare, e questo è il difficile, poi tutto viene da sè. Ma, cosa significa innanzitutto rompere una sfera? Dobbiamo capire prima cosa sia il vetro, lo specchio che vogliamo frantumare, quella stessa frattura che  ci ferirà,  per la quale non capire più nulla, e poi, solo poi, dopo tanto sforzo ci permetterà di raggiungere il maestoso risultato. Anche se queste posson ben essere tutte fantasticherie, impegnarsi affinché si possa guardare indietro con una almeno vaga idea di impegno in una direzione e non di stagnamento del tempo, gettato nel vento della terra, è ciò che può spingerci a fare le più “strane” cose. Strane. La ricerca continua, incessante, i tentativi si susseguono, ma se ciò che ci circonda non è conforme a ciò che vogliamo, perché non dovremmo opporci? Ovviamente si deve evitare ogni briciolo di violenza, ovviamente si deve considerare il rispetto, il proprio dovere, valore, ma, cosa ci sta dando in cambio il mondo adesso? Eh bene, ce ne sarà una nicchia per chi non ne è contento, per chi desidera un certo tipo di vita e un certo tipo di interazione tra le persone: lo abbiamo visto, il vuoto è ricco di ogni cosa se siamo noi, questi noi,  ad immaginarlo.

Un roseo tramonto e l’amore

A quest’ora d’inverno ‘l cielo si tinge di rosa. Ma non solo: tutta la città è avvolta, abbracciata, da una morbida luce quasi purpurea. I palazzi sembrano più romantici, i vetri sorridono beati, e tanto corre la vista verso il sole, che come una palpebra ci saluta, così corre la fantasia a profumare dello stesso colore ogni immagine che le capiti sotto mano. È incredibile come un panorama possa far emergere in noi i più sublimi profumi e le più belle strette, anche se ciò che vediamo è la sola luce. Pian piano, essa incupisce poi verso un vigoroso viola, e allora noi dobbiamo correre verso altre immagini, più soffuse: magari una canzone, o nel freddo buio, l’addio ad una cara persona. Ma ecco, finalmente le nuvole come un velo portano via la nostra attenzione, e ci lasciano liberi di vagare ovunque. Come in un sonno ad occhi aperti, ritorna quella dolce sensazione: prima che faccia buio, da qualche parte, il mio sguardo s’è già incontrato con quello di un’anima affine, che come me, trasognata stringe il cielo. E l’aria già trasporta qui e là il nostro desiderio d’amore, che mai e poi mai si può arrendere alla solitudine o alla diserzione di un giudizio di stima. Ma cos’è questo amore che solo per pochi minuti, prima della sera appare? Sembra che sia come una rondine: vaga da un polo all’altro del mondo, cercando il calore nel cuore delle persone e rifuggendo il gelo d’inverno. S’avvezza però alla bellezza della neve. Anzi, ne conosce ogni singolo diverso fiocco e con la sua provvidente maestria ci cinge l’animo, quando il nostro cuore sarà nel suo momento più luminoso e più  puro.

Inno a Parigi

Gli avvenimenti più tristi e disperati fanno riflettere… Ci chiediamo, stiamo davvero vivendo al meglio la nostra vita? Che, pare, è tanto fragile quanto la visione immaginifica di Parigi… La città degli innamorati, che tanto facilmente si è trasformata in un inferno a causa di uomini, che bruciano per una passione che ha consumato il loro buon senso. Ci sono tante cose così ampie, potenti, ma che per il ghiribizzo di un folle, possono essere cancellate. Perché, ci chiediamo. Come è potuto accadere? Ma queste domande, o la curiosità malsana diffusa forse in modo troppo esagerato dai media non sono la risposta. Dobbiamo scendere a fondo invece e prenderci quello che è nostro: la libertà di vivere. Questa è la cosa più fondamentale, più assoluta che ogni terreste deve poter avere, e anzi, ha! Se fin da piccoli ci esercitassimo ad essere in atto, —Uso questo concetto perché è incredibile, è perfetto: il passaggio dalla potenza all’atto, la tensione verso l’atto: lo sforzo del vivere realizzato. Tanto ammiro Arostotele, che deve essere stato un uomo degno a cui parlare. Così Platone— a sforzarci nel capire che in ogni situazione noi possiamo incidere sulla storia, lasciare un segno indelebile nella vita delle persone sia a noi più vicine, che per vie strane e meravigliose, anche le più lontane, scopriremmo presto la responsabilità dell’agire. Se fin da piccoli ci esercitassimo a capire che dove c’è un altra persona non c’è un pericolo, una bestia, ma un’altra potenza, come noi, che con fiducia e disponibilità è pronta a cooperare con noi, affinché tutto il mondo sia un posto felice… Felice perché ognuno tende verso la sua natura, e non ha bisogno di alcuna finzione, di alcuna paura, allora impareremmo la fiducia nelle altre persone, una fiducia reciproca e ben riposta! E perché nessuna persona in queste condizioni attenterebbe alla vita di un altro? Perché non vorrebbe perdere un frammento della sua storia, non vorrebbe privarsi di un incontro, di una invenzione, di un’opera meravigliosa che questa persona potrebbe fare! Possono essere tutte parole da sognatore… Ma, se ci ponessimo nelle condizioni più sfavorevoli, io chiedo, se negassimo ogni presenza di una vita oltre la morte, e decidessimo di vivere al meglio qui ed ora, con giustizia e libertà, così da sopravvivere nella storia, nel ricordo degli esseri a noi successivi, quando sarà giunta la nostra ora, io affermo, non saremo forse soddisfatti? A queste condizioni sì, e, se tutto va bene, poi, quale dio si rifiuterebbe di accogliere nel suo regno un tale uomo, che si è sforzato per tutta la sua vita di realizzare la sua natura, senza danneggiare nessun altro uomo od essere, e che anzi, ha con gratitudine e passione lottato a favore della vita? Nessuno io credo. Perciò uccidere in nome di qualunque idea è errato, profondamente errato, dato che si può ben vivere a prescindere da un’idea. E le persone non sono cose a cui attaccare una ideologia. Siamo tutti profondamente caratterizzati in maniera da comporre il fantastico universo dell’umanità! Uno spazio infinito, in cui, storicamente, compaiono virtuosi, malvagi, santi, demoni… Ma questa tela l’abbiamo in mano noi ora! Perciò è nostro compito dipingerla ogni giorno al meglio delle nostre possibilità, avendo fiducia nel nostro vicino, e spronandoci in maniera reciproca per cancellare la violenza dalla nostra storia. Sono stato veramente scosso dall’attentato a Parigi, e mi sono chiesto se infine sia possibile vivere in sicurezza su questa terra… Se sia possibile infine comporre le pazzie di ciascuno in vista di una convivenza comune. Poi, ho guardato in giardino, e ho visto mille specie di animali farlo ogni giorno. Certo è diverso, ma, se per un istante ci concentrassimo di più sulla nostra natura di uomini, sul concetto della nostra vita e della nostra esistenza… Allora sì. Questa terra può ben essere un posto sicuro e nessuno qui può impedirlo, se tutti ci muoveremo in questa direzione. L’atto è una scelta di vita, collettiva, ed è da qui che, io credo, si deve cominciare. Pongo questo breve brano a tributo del popolo francese, con la speranza che nonostante il duro colpo, essi non perdano la speranza nella possibilità del bene. Anche nei momenti più bui… Dopo aver perso qualcuno di importante… Possa brillare nei vostri occhi una scintilla di speranza e di avversione alla violenza, che si rispecchi in ogni vostro piccolo gesto. Mai odio.

A.C.W.Ryan

Io sì.

È triste quando di un brano ricordiamo solo l’essenza, ma non le singole note. Ci appare solo una parte, l’inizio magari, che poi scema subito, dopo due, tre note, lasciandone intatta solo l’atmosfera… Ma questa è bravura! Questa è meraviglia! Come quando osservando un ponte su un fiume, basta quella scena immediata ad accendere in noi tutto ciò che su quel punto della nostra mappa rimembrale è avvenuto, è stato e… Sarà. Già, perché quel luogo, quella canzone, ci accompagneranno sempre, con la medesima intensità, quella con cui l’hanno ideata  il generoso genio architetto o musicista che ce l’hanno consegnata. Anche un profumo, forse massimamente un profumo, può fare ciò. Qui chi ci consegna la grazia di un momento di ricordo stabilmente malleabile, stabilmente fumoso, e perciò stesso immaginifico, è quella persona che scelse quel profumo per noi. Sono lacrime d’acqua dolce quelle che questi rimembrari ci riservano. Lacrime che non sono proprio da darsi alla tristezza, ma alla dolcezza che tanto amo trovare nelle cose. Come quando durante un addio, già tristi nel cuore, la nostra malinconia, come una balena dagli abissi, inaspettata e con resistenza, sale per un poco dall’onde del nostro sorriso, —solo una lunga linea nera se ne vede— spruzzando il suo aspro respiro. E noi, accorgendoci amaramente di ciò, mentre pensavamo di essere forti, di poter ancora un poco trattenere il respiro, nelle profondità della nostra abitudine, potremmo dire: “Ci rivedremo un giorno, intanto io ti ricorderò sempre, e tu, tu sappi che questo viso, questa espressione ch’emerge, non sono per te… E non lo sono mai stati…” Così scene immense possono manifestarsi dal nulla, storie infinite ed emozioni che vanno oltre l’umano ovvero, oltre l’umano che umano non è. Tutto il reale si tinge dello stesso giallo della luce di quel lampione. L’aria ha un profumo diverso. Una freschezza diversa. Quando nella malinconica notte senza fine troviamo di non volere poi molto di quello che abbiamo dinnanzi. Solo che non ci accorgiamo che non l’abbiamo davvero dinnanzi. Poiché quello che vogliamo c’è veramente davanti a noi, e ci si deve alzare per prenderlo. Il resto è falsità, dissoluzione, e come una frusta ci istiga al dolore. Se è vero che i primi uomini furon giganti, forse sarebbe bene chiedersi il perché: come fecero a svettare sopra ogni difficoltà, come fecero ad attentare l’Olimpo persino? Ma noi siamo qui, nel nostro caldo giaciglio e non vorremo mica alzarci ora, nevvero? Beh io ‘spondo, “Io sì”.

Titolo [d’una battaglia ambigua]

Se anni fa potevamo dirci contenti che possiamo noi dire oggi? Possiamo pensare, rispetto a cosa si può dire felici o tristi? Chi è felice e triste in noi quando i lauri cantano frenendo sui monti, più alti dei pini? C’è in noi un principio di guerra che acclama alla vittoria, ma mai si esaurisce per la sua ampia portata. Tende e preme sul fatto che per qualche motivo noi possiam dirci felici. Ma la tristezza invece si fa dire! È presente non come forza, ma come crudo fatto che col suo corno di guerra suona ossessiva. La felicità intanto in campi lontani balla pronta alla battaglia. Un nemico contro un amico a metà si riflettono. Tristi felici in guerra son i fanti delle due capeggiate. Un giocoso scontro intercorre, e solo alla fine si scopre che tanto non potevamo proprio esser tristi, dacché dal momento in cui l’uomo si stanca di starsene chiuso nel suo grigio, ecco che torna allegro sulla strada. Avviene di botto: la gran battaglia è finalmente finita, e cantan in giubilo gli spiriti che rivedono il loro compagno emergere dalle tenebre. I tempi della battaglia cambiano e si cangiano da persona a persona in maniera differente, ma sol di tempo è questione che poi ogni lutto, ogni ferita o breccia, la felicità natural supera ed esclude. Ma non certo dimentica mai e poi mai la guerra che tanto aspra e dura durò nell’animo nostro. Servita? Intutile? È solo un gioco, è come ballare sull’ago di una bilanci sapendo già da che parte poi andrà a tendere. Pure spingersi da sè verso’l lato opposto. Come per dire: “voglio imparare” Poi, imparato si ritorna in pericolo, giacché questo stato di felicità equivale al giocatore che tirando i dadi si spera che questi vadano verso la sua fortuna, e men che meno ne può fare a meno, altrimenti vien meno la sua vita. Infine così noi siam fatti per camminare sul filo d’un rasoio e allegri tristemente lo facciamo. Che se si rifiuta il dolore il gioco perde’l divertimento ma guadagna un premio mille volte migliore. Ora, chi ha il coraggio di smettere di giocare? (Ammesso che’l si possa fare…)

Lo specchio della realtà 

In una realtà fatta di specchi, non muoversi più come riflessi, ma, a fatica frantumarsi e graffiarsi tra i vetri ormai rotti. Così a volte mi capita di pensare, di vedere. Sono quegli attimi in cui tutto ciò che c’è attorno a noi scompare. Tutte le illusioni non ci sono più, resta solo qualcosa di più vero. Qualcosa di decisivo, essenziale, per la nostra presenza nella storia. È qualcosa che riguarda sia la nostra personalità particolare, che un certo senso superiore, come se ci venisse messo dinnanzi agli occhi un segno della tendenza che noi, per natura, dobbiamo seguire. Mi capita camminando accanto ad una statua, la statua di Francesco Petrarca. Maestoso sta sul suo piedistallo, reggendo un libro. Ecco, tutto: impegni, cose, persone che credevo importanti spariscono, resta pochissimo. Solo una emozione, un’indicazione che punta verso un fine, che pare dire “Quello che stai facendo proprio ora, è giusto per la tua vita” Anche a lezione, —fu qualcosa di stranissimo— stavo osservando la professoressa parlare, come sempre, negli occhi. Ed ecco, fissandomi sul suo occhio destro, mentre si voltava, di nuovo, quella sensazione. Che questa volta pareva di intesa, come se anche lei l’avesse provata in quello stesso istante. Cosa accade quando non siamo più riflessi? Io credo che noi conquistiamo il massimo della nostra autenticità, per quell’istante il nostro carattere emerge a pieno, senza più alterazioni, condizionamenti, ci troviamo ad essere in un mondo che però scompare, poiché troppo illusorio. Solo le cose che ci hanno colpito davvero, che abbiamo vissuto davvero restano tra i rottami, sfolgoranti: la natura, la storia, la stima, possono attivare questa pacificazione. Se tutti noi prendessimo a vedere la terra come una sfera lucida e compatta, sulla quale  noi saremmo solo copie, immagini di qualcosa che c’è in noi, ma che emerge e può emergere solo nel momento in cui viviamo come è giusto vivere sulla vera terra, allora dovremmo concludere che la realtà di ogni giorno sarebbe solo un gioco. Un falso. Ci deve essere allora qualcosa —una certa abitudine— che ci impedisce di esser noi stessi. Questa abitudine da dove deriva? Da molto lontano. Dal momento in cui gli uomini, terrorizzati dall’effetto che poteva fare su di loro il dolore, pur di non subirlo più, smisero di essere se stessi. E iniziarono a fingere, si staccarono dalla natura a favore dell’artificiale sfrenato, abbandonarono i loro sogni personali, —parlo di un’età ben precedente a quella in cui gli uomini si facevano schiavi per cercare protezione, infatti, c’è proprio bisogno di arrivare a ciò?— divennero più sociali tra di loro, certo, ma a quale prezzo? Ora stavano insieme per convenienza, per trarre il piacere, o meglio l’utile della compagnia in sè, ma nelle loro azioni non c’era più fiducia, niente valore di stima, niente riconoscimento dell’unico vero universale che ci lega: siamo tutti terrestri. Siamo tutti uomini. E non c’è alcun motivo che qualcuno di noi sacrifichi la propria vita in favore della paura. Si dovrebbe rialzare il capo, pensare di nuovo di poter volare nel cielo, e certamente molti uomini lo fanno, sanno scegliere, stanno alle convenzioni, ma capiscono che nella vita comune privata, possono tornare alla loro natura. E con natura intendo la spontaneità, quel gruppo di qualità che si deve determinare, che è l’essenza della nostra esistenza. Come quando, abbracciati alla persona che più amiamo, baciandola e stringendola forte, non riusciamo a pensare a nulla di più naturale di noi due.

Uno specchio nel cielo 

Le nuvole erano così piene d’acqua, ma pur non piangevano pioggia sulla terra. Solo un poco di freschezza da esse calava, abbracciando chi le osservasse. E l’acqua dentro di loro rifletteva magnificamente la città sottostante. Osservavo quello spettacolo estasiato, non credevo ai miei occhi: vedevo nel blu parti di città innalzarsi e sparire in un bianco tenero. Era come osservare un lago nel cielo, dal quinto piano del mio palazzo. Un meraviglioso lago che non cade mai. E poi mi staccai dalla ringhiera, assapori l’ultimo soffio di freschezza e… Mi svegliai. Vedevo ora il buio, e gli oggetti attorno a me, silenziosi, sonnecchiavano ancora. Così familiari erano già ormai, anche se da non troppo avevo cambiato casa. Era una grande casa, ci vivevamo in quattro in totale. …Ci vivevamo? Sì, forse ci vivevano, sì… Io ero ancora ad osservare quel fenomeno. Ma chissà se è poi pur vero che le nuvole possano specchiare la città nel cielo? Non c’era abbastanza tempo per continuare ad immaginare… Dovevo alzarmi, prepararmi, uscire… Ah uscire, già! Chissà che oggi, nel cielo non appariranno quelle nuvole? Ma c’erano talmente tante cose ancora da pensare, che il tempo intanto galoppava. È triste, ma, nella nostra vita, abbiamo tempo per vivere una certa esperienza una volta sola per bene. Poi, anche se ci pensiamo, questa è come in corsa e noi possiamo rincorrerla, vederne una parte, aggrapparci ad essa per un poco ma poi “perderla”… E ogni volta non possiamo mai riconquistarla tutta in una volta. Anche se avessimo il tempo necessario… O forse no? Ma la vita in cui siamo calati —questo tempo finito— se da un lato ci dà l’opportunità di viverla, dall’altro ci consegna certe regole. Ma la fantasia invece, chi ce la dà? Che regole può mai avere? Varia per ciascuno, proprio come la vita, può essere più intensa o meno, proprio come la vita, ma continua però a dipendere dalla vita, infatti, è sulla base di ciò che ci accade che noi immaginiamo. La potenza della fantasia dipende però infine da noi, io credo. Non c’è così tanta violenza tra realtà e fantasia forse. Esse si mescolano, vivono a contatto e respirano insieme. Il trucco sta nel non farsi sopraffare da una delle due. In questo modo non saremo chiusi nella gabbia solitaria di noi stessi, ma nemmeno in quella pazzamente fattuale della realtà. Si deve vivere, ma usare ogni accadimento per pensare, immaginare! Così avremo una vita completa: vedremo di fronte a noi tutto quello che abbiamo realizzato, potremo figurarcelo ed esserne soddisfatti, come un architetto di fronte alla sua creazione: una struttura ben curata, con uno stile irripetibile. Guardarla con il capo alzato, il vento tra i capelli e l’anima che già, salutando quella mirabile visione, se ne va altrove, completa.

Piccola passeggiata del giudizio 

In quel momento, potei sostare per un istante tra le cose e me. O meglio, le cose come io me le figuravo: alle sei di sera l’aria era troppo satura di smog, ma profumava già di notte. Camminavamo, lungo un fiume… Mi chiese: “Come lo chiameresti questo? Fiume, torrente o che?” Io osservai il fiume, vidi una nutria e gliela indicai. La guardò, interessata. Che differenza poteva mai esserci tra il chiamare quel luogo fiume o fosso o che? Ciò che importava era la sua visione, il suo essere, la bellezza che poteva suscitarci e appassionarci. Era un corso d’acqua che curvava, serpeggiando dolcemente sino ed oltre il ponte su cui camminavamo. C’erano dei lampioni qua e là, che segnalavano, come teletrasporti, lo spazio, la cesura tra luce e buio. La vegetazione ai lati dell’ansa del fiume era quasi tropicale. Poteva simboleggiare la fertilità del mondo, in ogni sua piccola o grande forma di vita. Poteva scorrere in noi e trasportarci altrove. Ma noi contendavamo solo sul nome che fosse giusto conferirgli. Poco più avanti ci fermarono dei mendicanti, chiedendoci se volevamo comprare le loro merci. Non pronunciai una parola, solo, osservavo la proposta e ascoltavo la storia dei piccoli venditori di libri, così da poter decidere se dare loro fiducia acquistando qualcosa, così da aiutarli o passare oltre, nella diffidenza. Ma lei disse che avevamo già abbastanza libri da leggere per l’università, e che non ce ne occorrevano altri. Cordialmente, proseguimmo. Ora parlavamo del fatto se io, non avendo detto nulla, forse non avessi voluto comprare qualcosa. Ma io stavo ancora preparando un giudizio, e vedendo se ci fosse pur qualcosa che avrebbe potuto servirmi. Infine, all’inizio parlammo dei rapporti con le persone. Dissi solo “Se tu chiedessi le indicazioni per una strada e ti dicessero: questa è aperta, facile, può percorrerla chiunque senza fatica; oppure: questa strada è abbastanza difficile, ma dà grandi soddisfazioni arrivati alla meta. Tu, quale sceglieresti?” Era solo un esempio, e non voleva dare contro a nessuno, piuttosto voleva indicare che ci sono diverse nature, e, naturalmente, quelle più simili vanno d’accordo, le dissimili meno. Ma implicava anche, che per avere una certa natura, si deve esser in grado di definirla con un giudizio. E questa va poi rispettata come nostra scelta, una scelta che influenza e struttura la nostra vita. Per natura.