Tragedia da un sogno

Tra gli spettri della morte, e i vivi… Non resta altro che cenere. Un dolce inganno, un’umbratile dolore che si staglia inesorabilmente sull’immagine bloccata sullo sfondo di un cellulare, salvato dal crollo di ogni speranza. Il cantiere vuoto… Le macerie, vuote, e solo quel cellulare. Perché la morte concesse tanto solo per gioco? Non lo sappiamo, ma ascoltiamo la storia dei due amanti il cui legame non poteva esistere, eppure apparve, maledetto e soave. Come l’ultimo canto di un cigno.

-“Ti va se ci vediamo di tanto in tanto?”

Una domanda dolce, espressa con quei grandi occhi verdi — di un verde non puro e profondo, ma ancora più bello: sfumato e enigmatico, che si spaesa e finisce in un marrone avvolgente verso i lati… Come magma caldo e magnetico: appassionato — puntati nei suoi, le gote leggermente arrossate, e la bocca che, appena dopo la domanda, tremava. I suoi capelli erano così attraenti in quell’istante. Avrebbe voluto dirle immediatamente sì, ma non capiva ancora abbastanza quanta profonda fosse l’ammirazione, l’amore per quella ragazza.

-“Sì, certo! Nessun problema!”

Aveva risposto sciocco, davanti a quello sguardo emblematico, che richiedeva solo un bacio. La ragazza piena di gioia:

-“B-Bene! Ecco… Ci sentiamo allora, ricordati! Eh!”

Poi fuggiva via, leggera, sentendo già il profumo dell’amore, appena allontanato da quello della città, in cui correva danzando. Si chiedeva se mai avrebbe davvero stretto quel ragazzo, se mai avrebbero dormito insieme, uno accanto all’altra in un abbraccio tenero e caldo dei loro cuori. Quasi piangeva dalla gioia: apposta aveva fatto quel lungo viaggio, apposta per vederlo, per dirgli quello. Con il suo sguardo da giovane cerbiatta lo aveva incantato, uno sguardo dirompente per la sua apertura, la sua fortissima innocenza, che come un’onda calda emanava da quel viso. Un forte vento forse aveva colpito troppo forte il ragazzo, che, inconsapevole, non aveva saputo vederlo: non si crede mai, di primo acchitto quando si vede la bellezza eterna e perfetta di fronte a noi. E in quel viso, in quello sguardo, c’era tutta.

Alcuni messaggi, alcuni appuntamenti intercorsero alla loro tremenda separazione… Lei andava sempre a trovarlo, e si stendeva vicino a lui… nella sua stanza, mentre lui ancora non capiva, la stringeva forte, ma credeva ancora di aver tra le braccia un’amica… Fatalmente sarebbe stato meglio così.

-“Sai, questa notte ho fatto un sogno! Eravamo noi due, insime, a New York! E passeggiavamo così vicini, io stretta al tuo braccio tra quelle frecce enormi che indicano il cielo: i palazzi della città si aprivano solo per noi, e le stelle quasi piovevano giù, per rispondere alla chiamata di quei giganti!… Ma noi non saremmo mai caduti… Senti! Che ne diresti? Ti andrebbe un giorno di portarmici, sarebbe meraviglioso!”

-“Certo! Anche io amo quella città, e poi… Sento che questo calore mi piace. Sì, ti porterò a New York”

Le promesse tra innamorati! Quale dolce spettacolo al cuore, che si commuove, si innalza tanto in alto quanto vana può essere la loro dolcezza. Ma è bello così, si promette, si progetta, si tessono sogni comuni, che sembra non potranno mai tramontare senza una realizzazione almeno parziale, senza che almeno i due, stretti nell’alto intreccio delle loro anime, non abbiano guardato, dalle altezze dell’Empire State Building l’immensità dell’universo, abbracciati. Amanti.

Ancora più spesso si vedevano, e lei sempre più amabile lo avvolgeva tra le sue braccia, tra il suo profumo, la morbidezza dei suoi capelli arrossati e ancora, quel suo profumo, così solo suo. Anche lui la stringeva forte e iniziava a capire di amarla davvero. Presero un gelato insieme, e passeggiarono un po’ quel giorno. Andavano nel loro solito parco e si sedevano insieme. Dopo un po’di pensare comune, lei disse che era un po’ stanca, e andarono a casa sua.

Sdraiati sul suo letto, come sempre, si guardavano negli occhi, in silenzio. Gli capitava a volte… E l’aria era così leggermente tesa, che avremmo potuto sentire noi stessi il magnetismo che i loro occhi nutrivano, l’amore che si formava incandescente e sicuro: la speranza di vederlo finalmente fiorire. Anche per noi.

“-Sai, devo parlarti… Dopo tanto tempo insieme credo di… aver un… Senti: tra tutte le ragazze del mondo, io credo di non aver mai visto e provato nulla di più bello, di quello che sento per te, e sì, sei anche la più bella ragazza che io abbia mai… Amato … “Che ne diresti, se ci vedessimo” magari più spesso, insieme? Orami per me il tuo abbraccio, il tuo sguardo, è una droga, non posso farne a meno, e vorrei dire, insieme a te “per sempre”… Quando ci separiamo sento ancora il contatto, la stretta dei nostri abbracci e non voglio più dover, tornando a casa, di notte, con il canto degli uccelli e già il profumo del pane appena sfornato, pensare che avrei potuto darti un ultimo abbraccio o un ultimo bacio prima di partire, e così all’infinito, perché mai avrei voglia di lasciarti”

La ragazza a questo punto tenue, sfiorò la sua bocca con la sua… Si baciarono teneramente, in una dolce stretta, che noi spettatori non possiamo che sperare sia definitiva, chiusa per sempre in un cerchio, tanto è affascinante e dolce, fatalmente dolce.

Ma intanto la ragazza piangeva… Singhiozzava forte…

-“perché piangi? Cosa c’è che non va?”

Aveva chiesto piano, come se la parola, l’aria e lei fossero connessi da un unico liscissimo piano

-“Vorrei davvero tanto amarti e stare con te… Anzi, proprio per questo sono tornata. Ma non posso… c’è un problema… perché io… Io sono morta.”

Scoppiò ancora più in lacrime stringendo il suo amante e cercando di trattenerlo più che poteva. Era più fredda già, orami… E, preso per mano il ragazzo, lo portò per la città. Era notte è un gelido vento soffiava lieve. Raggiunsero un cantiere, alcuni lavoratori affaccendati, con il loro via vai facevano appena da contorno. Anche la polizia c’era, e la luce della sirena serpeggiava sui loro volti.

-“Cosa… Perché siamo qui? Non posso crederci, insomma, io… Ti stringevo no? Tu eri così dolce, così… Calda… No, aspetta”

-“Vieni con me, guarda qui”

Con le lacrime agli occhi come pioggia gelida, quasi grandine glaciale, la ragazza lo condusse accanto alla zona in cui c’era stato un crollo. A terra, vicino alle macerie, l’unica cosa che restava, con il vetro leggermente incrinato, era un telefono cellulare. Lui lo prese. Pigiò un pulsante e lo schermo, debolmente si illuminò. Lo sfondo era una foto di loro due, abbracciati insieme sul suo letto, come amavano fare spesso… Con quella crepa ed i colori impolverati… Perché?

Gli addetti e la polizia lo fecero sgomberare. Nascose gelosamente il suo reperto e si accorse amaramente che la ragazza era sparita… Ma lo sapeva già in fondo. Quando aveva visto il telefono tutto si era come immobilizzato. Aveva sentito un soffio e nell’attraversare lo spazio che lo separava da quella orribile riesumazione, il silenzio più totale lo aveva avvolto. In un puro attraversamento di spazio lo aveva raccolto, e poi, gelido aveva scoperto l’immagine. Tornò a casa solo quella notte, stravolto. Lei era tornata apposta dal regno dei morti per farsi amare, per dichiararsi a lui e stringerlo nell’attimo più alto e commuovente di ogni storia d’amore.

La morte… L’aveva sentita, e forse anche vista mentre se la riportava via, concluso il patto.

Si accoccolò sul suo letto, stringendo il cuscino, agghiacciato dalla crudeltà di quel destino che lo aveva giocato… Perché la morte aveva fatto tutto questo? Nessuna riposta… Solo freddo e silenzio.

Il peggio era che sentiva che mai, mai nessun’altra ragazza avrebbe amato come lei, e mai, mai nessun’altra avrebbe stretto in quel modo, nessun’altra storia d’amore possibile. La sterilità di un cuore causata da un folle desiderio e dal perturbante ghigno che dà l’assenso della morte, il suo assenso alla tragedia.

Non c’è altro che il vuoto in questa storia. Lui aveva il suo telefono, con quell’immagine fissa sullo schermo ormai inutile… Spesso la osservava, poi sempre meno… Ma la sua testa era come quello schermo: bloccata su di lei.

La sua vita finirà in un manicomio… Mentre carezzava il vuoto, la forma di lei… Chissà se la vedeva ancora?
Ieri notte, 4:45… Un sogno così dolcemente amaro… Spero presto di aver tempo per costruire un testo adattabile a spettacolo…

Antigone, un canto libero

Si sta bene, non occorre nulla. La bicicletta viaggia quasi sola, leggera sull’asfalto tanto battuto: tutte le strade portano a lei: anche questa. No, non è giusto? Voltati, e vedi quella croce là in alto luminosa! Sì, la riconosco. Anche questa porta a lei, è giusto. Quella stessa croce che ti accompagnò nel tuo ultimo cammino, quando non riuscisti a versar nemmeno una lacrima, mentre lei ti stringeva forte nella notte. Ma tu già lo sapevi, era pronto il tuo cuore: pronto a credere e non credere, ad attendere per soffrire la fine della sessione.Incredibile, non è vero?

Non sapevo che si potesse vivere solo volando nel cielo. Eppure era così: tante cose ci fregavano, trascinandoci a terra nel terribile attrito, ma era ben altra la voce che era giusto ascoltare. La voce del dio, che ci prende per mano l’anima, come quella rana, che gracidando sinistra ci indica la strada: in tutta la città, solo lei ha quel grato gracidio, quel particolare tonfo, che dovunque noi siamo, sentiremo: là, è la direzione di casa, là.

Il teatro ancora risuonava dentro di me: Antigone mi aveva visitato, e io l’avevo accolta, e triste già pensavo che a casa non sarei stato solo, solo in mezzo agli altri, solo in mezzo ai tanti che anche loro soli fanno una grande compagnia. Sarei stato invece travolto dalla banalità delle domande oziose, della consuetudine o della turpe inconsapevolezza… Avrei mai potuto continuare a vivere quella catarsi agile come la bicicletta? Tanto veloce che il mio pensiero correva in maniera aliena a questo tempo. Cinque, dieci minuti di viaggio: un anno e più di ricordi.

La memoria vacilla sulle strade già battute, si butta essa stessa a terra e grida: “non io ho colpe! Vorrei ricordare, ma non posso!” Non posso tornare su quella panca, anche se… Anche se nessuno legge lo vieta, e gli dei lo chiederebbero… Dove sono uscito? Di dove sono uscito? Un vento tempestoso stride sulle mie carni ancora calde, l’umidità delle lacrime trasuda diretta dal corpo e non c’è una via aperta, tanto quella dell’arte! Il suono del mio passo mi delizia. Rimbomba sicuro sul porfido grattato. Ci sono due porte dinnanzi a me: una è oscura e aspra, l’altra splende di luce. Il giorno, e la notte. Siam sempre di fronte a loro. Quale percorrere?

Mi addentro nell’ombra, serpeggia il profumo di fresco, di cantina e appoggio la bici ad un bianco muro, così lo vedo.

Ombra che scorre e mi porta via, entrando nella luce, ma la tiene lontana: indirettamente illumina l’armadio dove riporre la giacca con l’accensione della stanza accanto: fatale incendio da appiccare finché gli occhi non si riabituano al buio della notte.

Se per un istante vediamo la luce, se per un istante il rosso diventa bianco, sotto a quei riflettori di teatro, allora è giunto il momento di scegliere chi deve vivere, chi deve vivere e chi deve morire, chi ha rispettato la legge, e chi l’ha stravolta, strappata. Non c’è posto per altro che per l’effimero, ma quando questo con luminosa voce si pone sulla giusta via, allora niente può incanalare o distruggere il suo splendore: abbandoniamo i ciechi principi, e volgiamoci al canto… Laggiù già vedo sorgere una luce, una luce che sa tutta del suo opposto, il buio, e da esso trae nutrimento. Fiorisce e si illumina sul volto dell’attore, rispecchiata dal fortunatissimo e altrimenti misero spettatore.

Io son due: ho scritto versi e cantato immagini solo mie, e le ho plasmate perché il mondo potesse sentire un’emozione, ed è questo il dolce nettare della vita: infondersi nel cuore la bellezza, sprigionare sentimenti, in ogni sfumatura e direzione… Sì. Val la pena esistere in questo mo(n)do.

Abbandonando ogni malanno, ogni alterazione della vista, mi dispongo ad accettare il mio destino, chè follia è andar contro le leggi non scritte della propria natura, follia è rinchiudersi soli nella prigione del nulla.

Create… … Piangete… ….. Amate ……. E lasciate morire ogni illusione. È altro il disegno che siamo chiamati ad emanare. 

Vi chiedo un dipinto

Mi piacerebbe dire di quella volta in cui alla fine di una storia pensavo solo a due cose: il tempo triste che avrei passato senza essere innamorato, ed il tempo che avrei passato nella malinconia, una malinconia attiva: che ricorda dolcemente e non si stanca mai di carezzare le proprie pene, tentando di spegnerle, insieme all’impossibile speranza di una pace.Già, mi piacerebbe, ma non ne parlerò. Invece, prima di passare oltre, ridiamoci su tutti insieme: è come una di quelle situazioni in cui piove forte, a dirotto, ma nel cielo c’è il sole che appare brillante… e sì, dannazione, è davvero un astro quello che luccica forte tra le nuvole grigie e arancioni insieme! E tu sei lì, in un bus un po’ puzzolente e pensi a quando sarai costretto a scendere e a prenderti tutta la pioggia, ma sotto alla pioggia possono accadere cose incredibili! Storie favolose attratte dall’acqua corrente e dalla luce abbagliante di quel sole ancora tramontante.

Bene, abbiamo sorriso abbastanza, almeno io: sono proprio rincuorato, e non mi sembra più nemmeno di udire la tristezza suggerirmi chissàche! E l’immagine che davvero avevo in mente eccola che emerge: nasce! Si spande! Via… I colori si imprimono quasi da soli sulla tavolozza, le linee ballano baldanzose a braccetto del mio pennello e i dettagli mi salutano nella mia mente, chiari come il tuorlo di un uovo! Fluidi… Ne sento il sapore… Ah che bellezza! L’intuizione dell’artista è come mangiare un piatto di luce! Lo senti il suo suono cristallino? Sì, profuma di gloria eterna e di giustizia e sa di cosmo, non c’è niente da fare!

Ma ora bisogna che io vi mostro il disegno… State comodi! Quello che avevo disegnato era una sorta di uovo, un uovo cosmico, ma potrebbe essere benissimo anche una placenta, è infatti trasparente, lo vediamo da sopra, e c’è una sorta di squarcio nella parte sommitale da cui esce il liquido trasparente e gelatinoso del tuorlo… Il resto del corpo è ovaleggiante e, come dicevo, cristallino, amorfo per la precisone. Sulla sua superficie si vedono come dei puntini bianchi, ce ne sono tantissimi, sparsi. Sembra che quest’uovo cosmico sia piuttosto gommoso, anche se la membrana che lo ricopre potrebbe dare l’idea di un tessuto elastico e resistentissimo… Eppure! Sopra è squarciato: il feto! Il feto al suo interno sta nascendo. Sembra un piccolo uccello, ma potrebbe benissimo anche essere un uomo, è a quello stato di sviluppo in cui il feto di ogni animale è uguale a quello dell’altro! Un grande occhio scuro, una sorta di becco, o bocca allungata, con il corpicino piegato come un gambero, simile all’embrione di un pesce: sì! È uomo, pesce e uccello insieme direi! Ha delle manine strette e la coda che ondeggia leggermente… L’uovo con il suo pulcino è poggiato su un piano che non c’è: è come su un vetro a fondo scuro, eppure luminoso, lucido e compatto, che riflette appena l’immagine della nascita. Lo sfondo è simile, ma puntellato come il “guscio” dell’uovo, di lontane e vicine stelle tutte amiche: indiscrete osservatrici che caratterizzano l’elemento del nuovo nascituro: sono un’infinità… Ai piedi dell’uovo cosmico ci sono alcune gocce dell'”albume” uscito dopo la frattura, ma forse non è albume — anche se questa assonanza con la parola alba è felice! Alba, insieme ti avvicini il tramonto! — , pare solo un liquido come coccolante e caldo!

In una goccia trasparente e piuttosto alta, spessa, densa, si può osservare, se guardate con attenzione, nove puntini che ruotano attorno ad un’astro… E tanto infinito attorno… E luci, comete… Le altre gocce quali universi nascondono? Avvicinatevi e guardate pure, vi offro la visione e vi invito ad assaggiare l’atmosfera, respirate il profumo della luce e della vita! La scena si apre e si chiude: cosa dire? Il pulcino è pronto per nascere e navigare nel mare della sua esistenza o è stato aperto prematuramente quello squarcio sopra? Che animale è? E dove si trova il tutto? Che sia un dio? No. Lui non è dio, lui è.

Vorrei entrare e nuotare in quella gelatina carezzante e sussurrare all’orecchio di quel pulcino cosmico, farmi portatore della sua illimitata sapienza, piccolo come un girono nell’oceano: mare troppo grande e salato? No, niente risposte, ammiriamo… Ascoltiamo il respiro del cosmo e sentiremo quel pigolio, quella voce che ci afferma già tutto quello che dobbiamo sapere, tutto condensato in un dipinto che vorrei qualcuno producesse per me. Amore, oh amore, stima: ti abbiamo così vicina e ti vendiamo tanto facilmente… Orgoglio: grande tesoro dell’uomo buono, rovina di quello che non possiede i tuoi frutti: l’onestà. E ragione, vieni per ultima, frutto ancora immaturo dell’intuizione e del proprio sè, pure strumento utile ma che sa guidare contro la propria stessa natura, inaffidabile più di ogni emozione! Lei, l’emozione… Candida amante da accarezzare, da osservare fino ad esserne sazi: mai! E poi tutte le altre cose… Paura, salvezza naturale, coraggio, e ammirazione… Le altre qualità dell’uomo le lascio ai più saggi di me, ma so di non aver detto tutto… La notte sta scendendo e il sole non accompagna più il mio percorso: ci pensa la luna! È tempo di sognare, lasciamo da parte le verità più stringenti del mattino e godiamo della visione del cosmo tutto insieme… È sempre sullo sfondo di tutto! 

Aspiriamo alla meraviglia, uomini, creature del giorno e della notte, cose e cose strane… Non c’è differenza quando non compaiamo che in una goccia della placenta del tutto… Ed è emozionante allora sapere di cosa siamo parte, avere la motivazione per esisterlo e per tendere ad esso. La memoria non scritta, oltre ogni settembre, ogni lapide, ogni pagina bagnata da pioggia lacrimata: quello è il trionfo dell’infinito in cui ogni cosa scomparsa può rivedersi e godersi un nuovo spettacolo fatto anche di sè. 

Un uovo cosmico. Questo è il mio regalo per l’universo. Vi auguro la massima felicità che si possa provare giocando nella notte con la propria anima, accompagnata dalla sua più grande amata e da tutte le storie immaginabili sulla terra. Che la luce della luna vi sia da guida nel riso, col capo gettato indietro e le mani avvolte nei suoi riccioli. 

Lettera di un’amico delle stelle 76/44/564 d.125*7 

L’infinito metauniverso 

Un pezzo problematico, lo confesso, che apre molte questioni, senza risolverle ancora tutte. Ma proprio per questo si offre allo sguardo del viandante, affinché raccolga una moneta e ne lasci un’altra sulla strada.

Il nostro ingresso nella storia si può chiudere in diversi modi. Una volta che siamo stati gettati <nel mondo>, si può diventare il suono di una porta a molla che sbatte da sola, quel suono al quale tutti si voltano, ma non vedono nulla: la porta va avanti e indietro ma chi o cosa sia uscito non si sa: è oltre la soglia e da lì non può tornare. Solo pochi erano girati in quella direzione e hanno visto il loro amico uscire, ma gli altri sentiranno solo un rumore… Solo? No, lo sentiranno davvero, ma in modo diverso dai primi. Un altro modo per partirsene è costruire un’uscita diversa: lo hanno fatto alcuni grandi conquistatori, ma al contrario di come io dico: l’arco di trionfo, l’ingresso vittorioso nella città che ha avuto la fortuna di una grande impresa o di una grande conquista. No! Questo è da ridere! Gli archi di trionfo servono solo per uscire! E si deve costruirli in vita, infatti un monumento non si fa da solo, potrebbe passare inosservato per anni, e poi essere riscoperto dai bravi archeologi che passeggiano sulla linea del sole che va, va verso il basso. Il più grande bene per l’uomo è non sbattere nessuna porta, ma lasciare tracce, passare oltre ogni possibile porta lasciando dei segni: le pile di sassi che i viandanti costruiscono in montagna. Infatti si deve lasciare lo spazio libero, al massimo un percorso segnato, meglio se interrotto e ammiccante in una direzione potenzialmente infinita, non usare porte a specchio costruite ad oc per ingannare le allodole. Solo così ognuno potrà osservare le diverse strade tracciate, strade vere, percorse a fatica e con grande impegno, con la meta stampata negli occhi: quei grandi eroi che tagliano la folla al mattino con la luce in viso, anche quando piove, con la loro valigia ed il loro ombrello — un contenitore di viaggi, di ricordi ed esperienze, sempre pronto ad aiutarci e in cui cullare il nostro passo, e il simbolo del tempo, del clima in cui siamo immersi, monito e arma insieme — . Questo affinchè guardandosi in giro ogni uomo possa scegliere e scegliere bene, senza imbattersi in vicoli ciechi. E l’ultima traccia da lasciare è un monumento: un arco, che apre uno spazio aperto, ma indica inequivocabile una strada, un’uscita — forse un’entrata! — che indica un ideale, uno scopo raggiunto, un’invito. Non è un’ara o un altare, ma è proprio uno spazio vuoto, — potrebbe essere di rami intrecciati, lasciamo ad altri il nobile marmo, — per non entrare e uscire dalla storia come bestiame, soggetti ad un triste statuto che non abbiamo saputo affrontare e in qualche modo modificare, ma nemmeno prendere in consapevolezza… C’è un’enorme comunità metaspaziale e metastorica che ha tracciato percorsi ed archi, che si è opposta alla tirannia, al dolore, al male e ha lasciato grandi monumenti, meravigliosi e ferventi. E ci invitano a proseguire su questa strada, a liberare quello che noi abbiamo visto e che loro a loro volta, nella loro epoca, avevano potuto vedere: tanti punti in un cielo blu scuro circondati da tempi e spazi intersecati. Ma siamo noi a vedere quello che sta a noi vedere: attorno fisicamente gli altri vedono ben diverso, e questa è tutta altra potenza! Possibilità di vedere, di vedersi e di, in un certo senso, avere orizzonti amplissimi, di tanti e tanti gradi, che vanno oltre ogni distanza e ogni tempo. Sembra una cosa fantastica allora essere in vita, altro che nessuna gioia possibile, altro che dolore! Polvere, colori, lampi e luci che si mescolano in uno spettacolo illimitato, melodie di ogni tipo componibili… Parole, frasi, l’infinito è proprio qui! Il punto sta nel non essere schiavi della contingenza: fissare obiettivi, percorrerli fino in fondo con il massimo rispetto per sè e chi si ha attorno, integrità e capacità di “gettarsi sulla destra il mantello come uomo libero”. Ma insieme immaginare, sfruttare la forza del desiderio ma non lasciarsene dominare, così da non renderlo puro strumento di calcolo e di condizionamento finale. Esso dice il vero, ma diverso è il volere selvaggio di un animale e il desiderare accorto e onesto di un uomo, che prima di tutto desidera di essere soddisfatto davvero, non sviato in perversioni e attimi comprati a caro prezzo morale. Per quanto possa esistere anche questo. Infatti siamo liberi davvero: possiamo scegliere di percorrere un percorso, o di entrare in una città già oppressa ed opprimente da cui uscire sbattendo una porta. Città, contro percorsi appena segnati, abbozzati amichevolmente e con fiducia in sè, così da averla nel proprio compagno di viaggio, anche se calpesterà la nostra stessa orma cento anni dopo: è egualmente nostro compagno, così come lo sono quelli che hanno riempito di piccoli puntelli di luce la segnavia che noi percorriamo, e possiamo ben deviare, e con lo stesso spirito tracciare nuovi segni. Fino a costruire il nostro personale arco di trionfo. Entrambi i due modi di essere appartengono all’uomo, ne ha diritto, poiché è stato gettato nel mondo, non ha avuto scelta, perciò può disporsi ormai atterrato come meglio lo aggrada… Anche se ci sono tante indicazioni che trascendono il tempo e lo spazio e cantano consigli valorosi. Gli altri, gli altri sono parte del tutto, pure noi. Infatti da grandi città escono grandi conquistatori e dalle strade più selvagge emergono grandi città, talvolta. La differenza sta nel fatto che in città si vive tra i propri simili, schiacciati e incanalati; nei percorsi naturali ci sono altre priorità, ma ciò non significa il disinteresse, anzi ce n’è il massimo, solo non emerge con una affettata e inquietante forza… Infatti anche lì ci sono poi certi compagni di viaggio fissi: le stelle nel nostro orizzonte: quella rete nella rete che si estende e parte da noi, noi parte del nostro tempo, del nostro spazio, con ciascuno un’universo aspaziale e atemporale attorno. E in questa infinita complessità emerge con incredibile potenza la diseguaglianza! La potenza stessa, ciò che permette la giustizia, che induce ad un criterio per giudicare, e che ci spinge a cercare un orizzonte comune su cui costruire la convivenza dei contrari: una mescolanza ancora, che unisce ogni contrario al suo contrario. Tutto ciò si origina però dalla differenza, senza di essa non c’è nient’altro che l’uguale sempre a se stesso. La morte dell’arte, della vita, della libertà. È pericoloso questo potere e la storia lo ha ben mostrato eccome, infatti la differenza esiste di per sè, ma quello che si deve fare nella realtà, è costruire il giusto criterio per il darsi di una differenza tutta umana che non danneggi nessuno.

Post-scritto

cosa vuol dire allora costruire un’arco di trionfo? Significa concludere la propria strada con un segno tangibile di cosa essa ha significato per noi, di cosa può produrre se seguita con la giusta costanza e fiducia. Ma insieme non obbliga, anzi, invita l’occhio a guardare oltre, sotto alla volta, la strada che è ancora aperta. L’arco è come il bastone che attizza il fuoco, lo stimola ad accendersi ancora di una differente e sempre nuova potenza. Ci sono molti archi da osservare, sulle nostre strade ne incontreremo di diversi, e sulla base della loro suggestione costruiremo a nostra volta una rete di movimento disperso, che supera ogni barriera e giunge dovunque esso vada. E lì troveremo altri archi, che ci incoraggiano sulla giusta intuizione, o lo spazio vuoto, da colonizzare con il piede fermo, poiché alle spalle abbiamo tanti ad acclamare la prosecuzione del loro percorso che ci daranno la forza che possono con le loro aspirazioni.

Il potere della storia sta in questo, la grandezza del soggetto sta nel vedere e percorrere questo immane metauniverso con la giusta luce negli occhi. E quando questa di spegnerà, se saremo ancora in vita consideriamoci maledetti! Se saremo morti, sapremo, attraversato quell’ultimo squarcio, voltandoci indietro, se solo una porta a molla starà sbattendo, o se tutto un mondo si sarà compiuto, affinché la natura continui a sprigionare la sua potenza in costante trasformazione e movimento. 

Δημιουργός

Se io dico “la rosa era blu…” già ho costruito, ho plasmato una storia. Proprio come quell’artigiano, quel “dio” facitore, il demiurgo (Δημιουργός)… “Egli persuase la necessità a condurre verso il proprio meglio la maggior parte delle cose”. La maggior parte delle cose… Non tutte, così Platone spiega il male sulla terra. C’è qualcosa per i greci che è più fondamentale, persino degli dei (Δίος) quelli veri questa volta, come Zeus (Ζέυς). È la necessità, (Άνάγκη) il fato! E cosa esisteva prima dell’opera del Demiurgo, ovvero l’ordinamento della realtà? C’erano lo spazio: la sede del divenire; le idee, somme, invisibili agli occhi del corpo e proprie a quelli dell’anima, eterne ed immutabili; e gli eventi casuali. Il Demiurgo guardò alle idee nel suo lavoro, e non avrebbe potuto fare altrimenti. Dato “che era buono e voleva che tutto fosse simile a lui” creò prima l’anima dell’universo e poi l’universo fisico stesso, così che potesse essere governato secondo ragione. Le idee che sono implicate e compongono l’anima dell’universo sono quelle di uguaglianza differenza ed esistenza. Il Demiurgo per costruire tale anima si ispirò all’idea di creatura vivente, che conteneva in sè ogni genere ed ogni specie di vivente presente sulla terra. Questo mito di una straordinaria bellezza può mostrare quella naturale tendenza dell’uomo a cercare una spiegazione per ogni fenomeno, e soprattutto per il male. “Qual è la causa dell’essere due? È la partecipazione alla dualità” nulla di più semplice e sincero. Ogni cosa è un riflesso della sua idea corrispondente nello spazio. Ma le cose sensibili “sono copie imperfette dell’idea: pur aspirandogli le restano al di sotto”. È forse errato allora volgersi con tutta l’anima alle realtà ideali? Al tentativo di superare la necessità del fato? È forse scorretto vivere da eroi piuttosto che da copie manchevoli? Ciò che so è che questa necessità, questa tensione verso la giustizia, il bene, il bello… “E tutte quelle realtà a cui noi imprimiamo il sigillo “in sè” (καθ’αυτό)” dovrebbe venire tardi nel formarsi dell’umanità, ma in fondo non così tardi, già nel V sec a.C era emersa… E oggi? Noi cosa guardiamo? Forse sarebbe più corretto pensare cosa è bene, o lecito, se vogliamo, guardare. Se guardiamo l’idea saremo bollati come idealisti, sognatori, pazzi… —oh,— se guarderemo la realtà dovremo fare molta attenzione però: ci sono almeno tante realtà diverse quanti sono le nazioni che si affacciano sui diversi oceani, ci sono tante realtà quante i “comodi” che esistono. Ma l’idea… Forse dovremmo rivolgerci nuovamente alle idee e riordinare il mondo convincendo ancora la necessità a disporre la maggior parte delle cose nel loro modo migliore… Non parliamo di utopia però, ho detto la maggior parte, non certo tutte! Questo lo riconosco, è impossibile… (chi parla? Io sono ancora nel —oh,—) 

Nostalgia per un ritardo 

Rivogliamo i miti. La nostra storia, lentamente, in modo subdolo, senza che ce ne accorgessimo, ci ha privato del potere della suggestione. Dico quella magia che ci farebbe credere davvero, entrando in un bosco, di poter incontrare creature strane e soprannaturali, o meglio, naturali davvero. Ci manca la fantasia e la acutezza per intraprendere una ricerca sui principi del mondo, dell’anima, del tempo… Non si pensa più agli spiriti che dominano le cose e le rendono vive, nè alle enormi porte di bronzo che segnano il confine con l’ignoto: le stesse porte da cui passano il giorno e la notte, mai fermandosi contemporaneamente nello stesso altrove… Ci mancano gli eroi e le epiche battaglie, gli esempi dei grandi uomini virtuosi del passato, il valore della legge, parola che incarna in sè l’aspirazione all’ordine naturale del cosmo… Ci manca la riflessione sul destino dell’anima dopo la morte, quella sul suo percorso, guidata dal suo demone verso le pianure del giudizio e poi… … Dove è finita questa dimensione? La scienza in parte ci ha privati di un mondo magico e meraviglioso, in parte ci ha reso padroni del mondo… Ma è davvero questo un vantaggio? Non dico che la scienza e il progresso siano male, ma si dovrebbe osservare con più attenzione il loro fine. La politica si è trasformata in un fantasma che barcolla tra concetti che gli sono ormai estranei e cerca chissà che cosa, già… Lo stato oggi vuole davvero il bene dei suoi cittadini? O forse non è solo una macchina inquietante ripiena di dissidi e contraddizioni? Ma lo è sempre stato, solo, un tempo aveva un più sano rispetto per l’etica e per la tradizione, per la parola e per il piccolo. Ma oggi si deve pensare in grande! Ma come lo si può fare con una mente acerba, che non sa e non cerca di scontrarsi con il mondo, che trafuga informazioni da ogni dove invece di riflettere, di immaginare, di provare a costruire qualcosa di buono? Eh, ma è la verità, la verità, la verità! Cosa significa questa parola per chi, come un cane spaventato da un orso più grande e più forte di lui, non sa fare altro che appigliarsi alla massificazione degli scarti del sapere, senza invece percorrere le terre più selvagge — il vero territorio degli orsi, non le città soffocanti in cui i cani sono stati tratti con l’inganno, non erano animali liberi un tempo? E il miraggio degli animali domestici, l’illusione che siano tali perché è così da sempre, cosa potrebbero dire? Alcuni però sono felici — e vedere con i suoi occhi la vita, aspirarla e cantarla dall’alto di una rupe insieme ai suoi compagni, come lui posti in questa landa fresca e invitante. Vedere un fenomeno e indagarlo uno insieme con l’altro, inventare storie, divinitá ed esseri mitologici… E poi scoprire altri miti, altre tribù, restarne sorpresi, parlare con loro e trovare la foce per un nuovo sbocco sul mare dell’eccellenza umana: l’invenzione fantastica. Abbiamo perso questa diemensione del mito, perso il pudore naturale che spinge a quella tanto proclamata religione… Perso il valore della vita, messa a rischio ogni giorno per la sopravvivenza, perso la felicità di esser vivi nel proprio gruppo, nella propria terra… Queste cose io le ho respirate nei racconti antichi, nei documentari sugli animali e su popolazioni sperdute tra alti monti o in verdi foreste, l’ho vista guardando panorami meravigliosi, e mi chiedo se davvero siamo in un’epoca felice, o piuttosto se non sia questo il tempo contrario a quello di Crono, in cui gli dei tenevano il sacro timone del mondo: gli uomini nascevano dalla terra e ringiovanivano fino a tornare in essa. Ogni cosa nasceva spontaneamente e non c’era bisogno di forzarne la produzione, gli animali erano mansueti e pronti a comunicare tra loro, anche tra razze completamente diverse, e circolavano grandi storie e grandi ricerche, imprese e sogni… Non si può più scoprire l’America, non si può più immaginare come si sia creato un monte o un fiume, nemmeno inventare risposte che risvegliano quel senso autentico per il sacro e il misterioso che tanto accattivano l’uomo in ripspota a certi fenomeni naturali, che nemmeno poi, più tanto spesso vediamo. 
Ma per fortuna si può continuare a sognare e ad immaginare, nessuno può toglierci il dialogo che abbiamo con la nostra mente, nessuno può toglierci la nostra scintilla nella vista, il cozzare tra realtà e idea che dà luogo all’intuizione magnifica del reale che il poeta, l’artista di ogni arte, e la musica sanno consegnarci. 
Ci sarà un rinnovamento? O forse sarò destinato a perire con la mia voce? … Ecco, già stampata su carta geme, ma io sono qui, e finché sarò vivo continuerò a proteggerti. 
L’innocenza e la fiducia sono i nostri più grandi beni, e sin da piccoli ci accompagnano. Solleviamoli dalla visione empia dell’indolenza e recuperiamo il controllo della nostra terra.