La sottile epigrafe del disperso 

Sono preso, davvero troppo in questo ultimo tempo (e infatti mi spiace di produrre poco, e di non visitare il vostro canto così tanto necessario…): esami, sconquassi vari… Avrei necessità di un po’ di tempo, un po’ di tempo per essere:

Tempo, tempo ed essere. Siamo passati tutti in una fase chiamata Storia. La Storia… Non è la storia, infatti, nella Storia ogni cosa è non complessa, ovvero: semplice. Così, non c’è bisogno di nessun appiglio nella Storia, ogni cosa avviene come un frenare liberamente: non c’è costrizione, ma persuasione, la Storia è convinta di ciò che è proprio alla sua natura e non ne esce pur essendo libera di esprimersi come vuole. Questa Storia è retta dall’indipendenza e dall’amicizia, e null’altro serve. C’è la necessità, ma essa si compone solo in responsabilità e giudizio, qui il bisogno non è un diritto. Vige solo l’accordo, nel reciproco vantaggio ogni evento accade e si inabissa: sorge poi cala. Non servono congiunzioni speciali: basta la totalità come sfondo ed ogni fenomeno può sussistere nelle sue possibilità. Nella Storia scompare ogni difficoltà, e vige manifesta, splendente in tutta la sua luce la segreta armonia che unisce insieme gli opposti della natura, la misura segreta dell’anima e del discorso si manifestano in un circolo completo che abbraccia ogni cosa, così che il comune non sia altro che l’orizzonte più proprio visibile in ogni evento. Ma questo comune non è un gravo, ancora, è un frenare libero. La Storia non è condivisone di beni o mali, è condivisione solo del commercio in quanto commercio: l’aprirsi delle due parti libere di fronte ad un punto che viene via via costruendosi come il loro accordo. E non esiste che uno dica che se si vogliono condividere i beni, si devono anche condividere i dolori: l’aiuto è un dono, e si concretizza al di fuori di ogni costrizione, altrimenti si cade solo in una rete di ladronecci, ruberie e intrighi. Come può essere che chi voglia portare avanti la sua proposta, perché ritiene che sia buona e valida, debba sempre far ricorso al l’inganno e alla voce, invece che al canto libero dell’abisso più profondo dell’evento?

Ma oggi noi siamo nella storia, e non nella Storia. Di questo dobbiamo esserne consapevoli. Qui vige la difficoltà e la miseria, allora ecco emergere le realtà composite e sparpagliate, poi costrette in grandi canali affinché nessuno si lasci prendere dall’errore e calpesti qualche avvenire, così però tutti sono in qualche modo frenati, e non liberamente. Si è liberi solo di delocalizzare la propria pesantezza, ma il leggero, l’ala dell’anima non si sposta mai da dov’è nata, ed è in grado di vedere la Storia, e un’altra eventualità di fronte a sè. Eppure corrotta e presa da quello che costantemente vede di fronte a sè si perde e crede che il dolore e la necessità che la affligge sia la normalità, e crede che sia obbligata a fare del bene, e crede che sia obbligata a ricercare certi elementi, quando invece è nella sua natura essere evento e rapportarsi in maniera semplice e libera con la totalità.

Il soggetto

Il soggetto precipita nella storia, e si disperde in essa diluendo quello che non si può conoscere, ma che solo appare in quanto tonalità, che si accorda o meno con gli altri “eventi”. Si diluisce e perde se stesso, è tutto spaventato e si ritira nella concessione, oppure, tragicamente esce del tutto dalla soluzione, e si deposita, solo, sul fondo, con altri grani paralizzati tutti dalla stessa malattia. Due condizioni specchiate, una che fatica a comprendere l’altra, e nella loro  rispettiva gradualità rischiano di scomparire come evento e di trasformarsi in cippo funerario, a occupare uno spazio che non gli pertiene.

E che fare allora? Come esseri nel mondo? Come esseri caratterizzati dalla schiusura? Dalla comprensione dell’essere? L’autore dice che la domanda circa l’essere non è stata ancora espressa con la giusta cura e la giusta profondità. Ma noi sappiamo infatti cosa significa essere, o siamo di fronte a tante storie per bambini? 

… I combattenti di Maratona furono seppelliti sul luogo stesso in cui erano periti… 

… Gli ateniesi avevano ritenuto il loro valore eccezionale…

Purificazione

In un sottopassaggio, freddo… Laido, laido delle macerie di una civiltà che ha gettato il suo veleno nell’aria e nella terra fine a spegnerne ogni luce, … giace un cadavere: gonfio, malato… Forse ancora rantolante. Sembra una grossa foca, o un cane malforme. Ha il pelo grigio, ma non di sua natura, è sporco, polveroso e intriso di tristezza: la percepisco nell’aria, tetra e mortifera come l’odore della pioggia, che si infrange acida su siepi alterate nella loro origine, fin nelle loro radici: anch’esse malate e impure, come la terra che stritolano impotenti. Accanto al cadavere c’è un piccolo essere, un bambino accovacciato, con in mano un piccolo bastone: si diverte (?) a punzecchiare la bestiola. Mi avvicino, i miei passi scricchiolano sui vetri rotti e sulle macerie di calcestruzzo e laterizio. indistinguibile il suono di uno dall’altro, solo, agghiacciante stritola il silenzio che pesante grava sulla scena. Ecco, sono davanti al bambino, davanti alla foca, davanti ad un muro stinto e macchiato.

Il piccolo si volta… È un demonio: occhi rossi, pelle grigiastra e lingua insanguinata… Mi osserva con i suoi occhiacci, la colonna vertebrale che affiora dalle sue carni orrende mi getta in mente sinistri pensieri…

“Che fai? Che fai con quella bestia, è morta ormai. Perché continui a punzecchiarla?”

“… …” “Non c’è niente”

Gli prendo la mano con il bastone, lo afferro e lo getto lontano.

“Abbiamo distrutto la terra, ridotto a immondizia tutti i suoi esseri, invitandoli alla ricerca del potere facile, della soddisfazione rubata e del veleno che brucia sulla pelle del simile nemico. Abbiamo dipinto tutto di grigio, di sporco, li abbiamo uccisi! Da dentro, capisci! E quegli sciocchi si sono lasciati catturare, hanno addentato la nostra esca impura e sono caduti nella trappola! Abbiamo trasformato i loro corpi in macchine, la loro mente in mazzi di chiavi rotte, la loro lingua in germi. Abbiamo spento in loro ogni ritegno naturale, assoggettato il loro agire al bisogno e alla pietà velenosa, consumato le loro carni lentamente, strappandoli nel loro ultimo momento di vita con vomito di fuoco. E sai chi siamo noi?”

“… Sento le tue parole, le sento. Le vedo… ma come tu vedi io ci sono, chi sei tu, allora?”

“Hahahaha ma sei anche tu un mezzo fantasma su questa landa, presto una foca schiacciata dal peso della tua stessa volontà, forse sana, forse troppo insana per sparire senza lamento…. Chissà… Beh, che importa, posso ben dirti quello che sono, dato che tu tanto stai scomparendo”

“Non ingannarmi, e vai avanti. Come vedi ho io il bastone dalla parte del manico”

“… Sei furbo, ma non dove dovresti. Noi siamo la sete, l’ignoranza, la nebbia che ti scioglie da ogni scrupolo. Noi presto veniamo in tuo soccorso ad ogni “ma sì” ad ogni tuo oppurtunismo, ad ogni tuo inganno o sopruso e ti culliamo nella dolce e velenosa certezza che sia qualcosa di cui non preoccuparsi troppo, e ti cancelliamo ogni rimprovero saggio, lo trasformiamo in voce capziosa e malferma. Carezziamo la tua morte e i tratti viziosi della tua persona, schiacciandoli ancor più negli anfratti degli scogli del mare della coscienza, così che l’avvelenino tutta. E nessuno può sfuggire. Nessuno! Non vedi quanto ancora si accaniscono sui morti, sbranano le loro membra con le loro fotografie, con le loro urla demoniache? Quanti ancora si godono il lusso comprato da altri, inventato da altri, cercando di appropriarsi più di quanto possono, porci ingordi e mai sazi dell’amor di sè sciupato: quelli che si annaffiano di champagne non per celebrare il loro successo, le loro fatiche, ma la loro malversazione, il loro passo sinistro. Quelli che dovrebbero curare un gregge di pecore, ma invece lo sbranano godendo del sangue dei loro fratelli. Quelli che piangono, piangono allo specchio, ma ridono, poi come oche e galli ebbri in mezzo ai loro schiavi e ai loro amici, ma in realtà si guardano tutti con sospetto e invece di cercare una qualche giustizia se ne beffano, affermando che il mondo è fatto così, che ne hanno il diritto, o che gli altri se la caveranno.”

“Tu… Tu! Sappi che se io dovessi cadere sarà solo per la fatica di stare in pedi, da solo, senza alcun contrappunto saldo a carezzare la mia anima. Un altro demone scortica la mia anima, il demone della consapevolezza del mondo, il demone dell’indisponibilità a sfuggire all’inesorabile ciclo del nulla. Quel demone del “o tutto o niente” ma questi demoni sono forti nella mia anima, e non sordi di fronte alle esigenze del modo, quello vero, non sordi di fronti alle esigenze dell’io, non si stancano, e se lo fanno, se lo rinfacciano lacernati. Ma così deve essere l’esistenza: io, al mio ultimo respiro voglio guardare indietro e gioire, mai mi prenderete con il vostro veleno, ho già il mio e lo posso iniettare anche a voi. Ribolle di pace lo spirito che sa di non essere ancora felice, ma che sa che potrà esserlo, e intanto è calmo, tranquillo, osserva ed è osservato, cerca negli occhi degli altri la loro natura, una possibile via di accesso alla storia delle storie, all’ esistente-esistito, e se lo trova spera in un contatto diretto, tanto tremenda è la sua profondità. Allora si storna da sola, oltre il riconoscimento appare augusto, ed ecco che c’è l’emersione. E tutti aspettano questo invero, ma voi corrompete quanti più potete… Ma non potrete sconfiggere la forza della sofferenza: la sofferenza indistruttibile che si accetta pur di non macchiarsi di empietà verso la natura. Un canto libero e doloroso che però squarcia il velo della falsità e si staglia infine sulla luce di un’alba futura. Non è giustizia questa a cui voi portata la realtà, è morte… Ma, ci sono ancora tante fiaccole accese nelle città rimaste in piedi. Le ho viste: hanno un nome! Ho visto uno spettacolo teatrale, fatto con passione e sfavillante della luce del giusto impegno, che schiaccia e annienta ogni senso di scurezza, invitando alla condivisione dell’emozione. Ho ascoltato un concerto, un concerto in cui ogni suono veniva direttamente dall’anima: quel suono… Il solo perfettamente armonizzato con il suo sostegno, l’immagine che dipingeva… L’avessi vista: non avresti potuto fare a meno di bruciare nella tua bile, maledetto! E uno scienziato, giovane, lavorava alla ricerca di un fluido per risanare la terra, lavorava per il suo bene, per il bene di tutti, con la luce negli occhi. Un dottore, che curava, ricuciva una belva strappata in mille pezzi, le ridava vita con le sua sapienti mani, riaccompagnandola all’equilibrio che poteva. Un poeta, piccolo, incerto, che guardava tutto il mondo commosso, avresti dovuto vedere i suoi occhi, mentre si interrogava sull’identità dell’uomo, sul perché del male sulla terra, sul come vivere al meglio la sua arte e la sua vita.”

“Ma io, mezzo scomparso, come vedi, ho ancora un cuore che batte e non mi nutro di nulla, se non della ricerca dell’amore…”

“Tu non sei un uomo di questo tempo mortale. Io non ho potere su te e la tua stirpe… Pensavo che ti saresti piegato da solo, ma davvero hai tanto violentato il tempo che ne sei uscito fuori. Sta bene, voi potrete tentare di ricostruire la terra, ma sappiate che noi abbiamo una grande forza, e voi siete solo un pugno di effimeri, ma tu lo sai… Non ricerchi nulla di più se non l’amore dici? Sei una bestia strana. Ma se un giorno sarai ancora vivo e ci rincontreremo forse ci sarà altro da dire.”

[dal cielo, fuori] “Vattene bestia amara, lascia questo. Tu, uomo resta lì. Devi scoprirlo ancora qual’è il tuo posto, ma se seguirai la tua natura non avrai dubbi. Molti li porto con me e saranno solo insieme da un’altra parte, più bella di qui. Io sono come questi demoni, ma demone del cielo. Tu resti qui, sei una specie che non so identificare.”

Ritiro la penna, cala il sipario della calma. Questo è stato detto, duro, difficile, forse inutile. Ma ogni volta che si deve partorire qualcosa è bene arrivare fino in fondo.

I cuccioli di cavallo muovono passi incerti sotto la tiepida luce della luna.

Fedro

<questo è l’ultimo brano in cui mi ispiro a Platone, l’ho scritto circa un mese fa… Sono cambiate molte cose, ma è come l’alba di uno sforzo nuovo. Che già opera negli altri miei ultimi brani, lo voglio porre qui, come segno del mio percorso. Buon viaggio cari viandanti>

C’era una volta, in un paese lontano, in un tempo in qualche modo vicino un banditore. Era un tipo speciale, sempre vestito da aedo, con un portamento maestoso. Si scomponeva solo quando dava il suo spettacolo. Capitava infatti a volte di vederlo di fronte ad un monte, un fiume o una distesa di campi dorati: lì pretendeva di dare spettacolo. Indicava il panorama, gridando “venghino signori! Venite a vedere le meraviglie della natura, fermatevi qui con me a dare un’occhio al panorama, ma che occhio! Diamoci una mano, due gambe e tre capelli!” Poi, quando aveva raccolto abbastanza gente, si gettavano in mezzo alla natura e giocavano a prendersi, o a rincorrersi. Erano come invasati agli occhi dei passanti, ma parevano divertirsi un mondo. Così parecchi avevano voluto provare questa sorta di rito e ormai moltissimi seguivano il banditore, ma nessuno sapeva dove si sarebbe fermato la prossima volta. A volte capitava di trovarlo durante i propri viaggi, che camminava pensieroso per la strada. Si fermava sempre incrociando l’amico e lo salutava gaiamente, con un gran inchino, poi proseguiva verso il “dove”, come diceva lui. Era un individuo enigmatico e allettante! A volte poi si fermava con qualche persona incontrata per strada e discuteva, a viso aperto su vari problemi, problemi reali, infatti non si interessava per nulla di tutto ciò che era vagamente legato alle cose che le persone credono buone… Invece andava sempre in cerca di qualcosa di nuovo, o forse, come diceva lui “Di riconosciuto ma di non conosciuto e ricordato”. Un giorno il banditore si trovava in una regione costiera, con alte scogliere che sembravano esser state strappate direttamente dalla costa: aguzze e frastagliate tangenti che si infrangevano nel mare spumeggiante: cascate di terra cristallizzata che schianta sul sale dell’oceano infrangendolo per finire dolcemente dentro di lui, in profondità, accoccolate sul fondo sabbioso. Era incantato da questa visione e invitava tutti a dare un’occhiata. Chiedeva anche ai passanti di provare a descrivere quello che sentivano, quello che vedevano, ma di nessuno era soddisfatto. Decise così di gettarsi anch’egli nelle profondità dell’oceano: un tuffo eterno, seilenzio… Il vento è piacevole da quassù, vedo i gabbiani che volano sopra di me, l’acqua si avvicina, ne sento il profumo e la dolce voce di richiamo… Poi l’impatto: suono d’immersione amplificato all’agghiaccio, schizzi rossi che si sollevano, nessun lamento e… La riemersione, il nuoto verso riva! Era vivo, troppo vivo per quella caduta, pensarono gli uomini che lo avevano veduto cadere. Da quel momento nessuno ne seppe più nulla, ma si dice che in una grotta, poco lontana dalla spiaggia in cui tutti lo videro chiaramente approdare, si possa talvolta udire il suo canto. Il suo cadavere? Se esiste non è su questa terra, dove sia andato dopo tutti questi anni nessuno lo sa. Certo è che a volte c’è ancora gente che corre gaia e serena nei luoghi in cui si fermava a declamare, e c’è persino chi giura di averlo rivisto proprio in quei luoghi, come un fantasma? Non proprio, dicono “come un ritornante”. “Ma tutti si ricordavano di lui e si interrogavano sulla sua storia?” Non esattamente, per alcun tempo ci fu una sorta di caccia alla sua figura, tutti erano smaniosi di sapere se fosse davvero sopravvissuto con tutti i suoi soliti inviti a guardare e vivere a contatto con l’ambiente, a curarsi del sè e a cantare insieme a chi ci stava a cuore. Poi quando questi si stancarono di cercarlo restarono le testimonianze di chi lo aveva visto, chi ci aveva persino parlato, ma nulla di preciso. 
Io lo conoscevo bene quel viandante e spesso avevo condiviso con lui la strada, solo non avevo saputo mai compiere fino in fondo il suo cammino, non lo avevo compreso bene, o forse non riuscivo a seguirlo? Dovevo forse ricominciare da zero? Meglio cento giorni ben vissuti che un anno o più fitti di inganno. Andai allora nella grotta dove dicevano si fosse rifugiato dopo la sua scomparsa nel mondo dei vivi. Vi dirò la verità: io quel giorno entrando sentii qualcuno che mi chiamava, era proprio lui! Mi aveva riconosciuto e veniva ad accogliermi, maestoso come sempre, con un sorriso davvero umano sul viso, ma non era “troppo umano”, no, era davvero umano! Mi prese il braccio e parlando gentilmente mi condusse verso il fondo dell’altro: c’era un fuoco che proiettava sul fond della caverna le nostre ombre tremanti, meglio, la mia sembrava così piccola e labile in confronto alla sua… Ci sedemmo con la schiena rivolta verso l’apertura, le gambe incrociate, tranquilli a guardare la semioscurità illuminata dal fuoco e dalla luce del sole alle nostre spalle, che filtrava accarezzando l’aria della caverna. Dopo un po’ di silenzio, quando la mia ombra si fu completamente abituata all’ambiente e anche il mio respiro ormai era tutt’uno con il vento, l’aedo prese a parlarmi. Sorrideva sicuro ed i suoi occhi splendevano di un colore che non saprei descrivere: “Sei il benvenuto, o Fedro, spero che il tuo viaggio fin qui, la tua discesa, non sia stata troppo faticosa e irta di pericoli, ora che vedo che hai perso la tua lanterna… Sei qui per questo, non è vero?” “Sì, sono proprio qui per questo credo, ed è un grandissimo piacere incontrarti, aedo, è da parecchio tempo che non sento la tua voce e che non mi unisco ai tuoi giochi, sai, molti tentano di fare il tuo stesso mestiere là fuori, ma non è proprio la stessa cosa… Tutt’altra era il tuo teatro!” “Oh, me ne rammarico molto, Fedro, ma vedi, il fatto che ci provino è già una grande felicità per me, saranno uomini coraggiosi e belli quelli che si allenano su questa via e imparano qualcosa. Ma veniamo a te… Io vedo che tu sei piuttosto stanco e hai bisogno di cure, bene. Senti, quand’è l’ultima volta che hai dato un abbraccio sincero ad un amico?” “Non saprei dirlo, amico mio” “Lo vedo. Ciò che ti manca, Fedro, è un po’ di coraggio, non sei certo un vile, ma sei troppo concentrato in te stesso, dovresti invece aprirti al mondo… Giusto quel tanto di più che basta per andare da un tuo amico di cui ti fidi per abbracciarlo e parlare insieme a lui. Ecco, vieni qui, io ti saluto” mi avvicinai all’aedo che mi strinse appena, era qualcosa di strano, mi stava certamente abbracciando, ma sembrava che io fossi immerso in un fiume: l’acqua incontrando la mia figura si allargava e cingeva il mio spirito come purificandolo da tutti i dubbi e i pregiudizi che potessi avere… provai solo una cosa: il sincero. Lo strinsi a mia volta, appena, come stava facendo lui… Quando ci fummo separati tornammo ai nostri posti, mi disse “Vedo che hai compreso ciò che intendevo, sembra strano che proprio io che non mi faccio vedere da tanti anni ti predichi di aprirti al mondo… Ma io sono qui da questa parte ormai, e aspetto chiunque voglia venire a trovarmi con grande contentezza, anche se in vero… Sono e non sono. Ti spiegherò più chiaramente visto che vedo che non capisci, giustamente, immagino. Io ho sbagliato, ho deciso di abbandonare l’uomo e di rimescolarmi prematuramente nella natura. Ero desideroso di rivivere nei campi, nel soffio del vento, in ogni mio amico che si fosse ricordato di me, ma il dio rimproverandomi per questo decise di chiudermi in questo antro affinché continuassi ad esser uomo, pur essendo natura. Così sono qui da molto tempo ormai e chiunque passa per queste gole lo accolgo in questa mia dimora per liberarlo, proprio come te…” “Liberarlo…” “Sì, Fedro, liberarlo da inutili paure, dal terrore che percuote l’uomo: la solitudine, che lo spinge a volte in spelonche molto più buie di questa. Lo invito invece a partire, a prendere in considerazione il proprio sè autentico! Sai, in noi ci sono molteplici parti, che se ben accordate producono un suono bellissimo, quando invece c’è qualche granello di sporcizia o le parti non sono ben combinate, il nostro canto è come quello di cigni: bellissimi uomini che cantano sgraziatamente, se non prima di morire, quando esprimono il loro più bel canto, poiché orami, le parti che sono più sensitive e indovine di noi, hanno già sentito il profumo della fine e allora, insieme, tutte provano cordoglio e si chiedono se saranno ancora insieme. Ma io devo ancora dirti di quali parti si tratta. Bene, considera questo come un discorso verosimile, non vero, perché è l’argomento che governa la più o meno verità del discorso su di esso, e di questi elementi — se vuoi chiamali nel loro insieme anima — nessuno sa nulla di certo. Devi sapere dunque che dentro di noi vivono tre oggetti in comunicazione tra loro: una sorta di stanza, che contiene un blocco, un cubo di qualche materiale simile al ghiaccio e una fontana che con il suo getto tiene il cubo in equilibrio e sollevato dal pavimento della stanza, che però non è bagnato, quello della fontana è infatti una sorta di fumo evanescente ma molto intenso a toccarlo. Questi tre elementi sono rispettivamente il nostro carattere superficiale: il noi che osserva se stessi — quello che contiene, dico — e può parlarci, dialogarci a volte interrogandolo, a volte costringendosi a rispondere. La fontana è il flusso della volontà, dei desideri e della verità. Il cubo posto sopra essa è come il nostro giudizio accorto, è il principale interlocutore della stanza, e a volte la consiglia su come agire o su che dire, su cosa deve pensare… Il fatto è però questo: il cubo e la fontana sono in un rapporto strettissimo: uno con il suo peso schiaccia la il flusso ascendente e tenta di stare in equilibrio, l’altra spinge in alto il cubo e lo fa traballare a volte gridando a volte pretendendo, a volte indignandosi o approvando con gran forza l’operato dei tre insieme. La fonte è il cubo discutono spesso e volentieri, e quando la fonte è troppo pressata a volte compie il suo moto con gran forza e fa pericolosamente traballare il cubo, che allora si schiera dalla sua parte e comunica alla stanza il messaggio segreto che sale dalle nostre profondità.  Ora, quando le tre parti, come dicevo, sono in armonia la stanza è pulita e ricca di ordine, la fonte spumeggia in modo vivo e costante sollevando il cubo sino a mezza altezza della stanza, ma senza fargli perdere l’equilibrio: in questa condizione noi siamo perfettamente in pace con noi stessi: vediamo e sentiamo chiaramente il messaggio del cubo, che tiene conto felicemente anche del messaggio della fonte e ce lo comunica, così che noi possiamo decidere cosa fare e come comportarci in maniera assolutamente calma e sentita. Lo stato di equilibrio non si mantiene però facilmente, o Fedro, infatti la fonte è molto capricciosa agli eventi, e il cubo piuttosto pesante da sorreggere, così ci si deve impegnare, con il proprio sè a discorrere spesso e volentieri con gli altri due, così da mantenere l’autenticità della propria persona. Chi si lascia distrarre dagli eventi e taciturno osserva lo spettacolo: la guerra dentro di sè come specchio della guerra di fuori, non potrà mai accedere alla felicità, al bene compiuto con coscienza e con cuore leggero.” “Perciò, o Fedro, se vuoi tornare ad essere ancora felice e onesto con te stesso, ricorda questo mio piccolo mito e cerca di occuparti tanto del giudizio che del sentimento, vivi sognando ma vedi accanto al sogno insieme anche il mondo vero, non perderlo di vista, ma sappi invece che non è un obbligo nè un divieto. E cerca di avere ancora più fede negli uomini, gira il mondo se puoi, nascnde cose meravigliose in ogni angolo e diffondi la tua storia, il tuo ed il mio gioco! Infatti tutti dovrebbero seguire a tendere, a guardare verso qualcosa. Tutti dovrebbero sapere che non si può giocare con il proprio sè, solo con le cose e con i propri amici è bene scherzare in modo serio. E ridi, sorridi Fedro, che il tempo è ancora tutto tuo su questa terra. Come ultimo consiglio, o Fedro, ama, ama davvero: questo è uno dei sentimenti che tengono tutta la tua interezza in armonia e passione, in attività, non scegliere mai di amare per finta, o non amare mai in frazioni come quelle su cui discutono i matematici, ama invece per intero perché due diviso per due risulti uno.” “E Fedro, mi raccomando, so che tu avevi in mente di relaizzare un certo sogno, e ti impegnavi moltissimo per quello, vedo che lo fai ancora, continua così, mio caro, insieme a tutto il resto.” Dopo che l’aedo smise di parlare mi accorsi che i miei occhi erano spalancati, come accecati da una luce fortissima lacrimavano e dovetti chiuderli. Quando li riaprii non c’era più nulla: la caverna era vuota, buia, calda matrice senza fuoco nè sole. Sentivo ancora sul mio corpo la corrente di quel fiume… Vacillante mi alzai e inizia la mia ascesa, non so quante volte mi girai indietro, speranzoso, con un sorriso gentile in viso, so solo che quando uscii alla vera luce il mondo non era più quello di prima: sorgeva un giorno nuovo, di primavera… Appena mi riabituai alla luce mi voltai e appoggia il mio bastone accanto all’apertura della caverna: era un bastone che conservavo da tempo, un dono di un vecchio amico… Poi sorridendo inizia ad avviarmi verso casa, sapevo perfettamente cosa avrei fatto lungo tutto il mio cammino. Il vento mi era favorevole e in un sussurro mi disse “Addio, mio caro Fedro, un giorno saremo di nuovo insieme, ora tocca a te essere insieme”… Non mi voltai, sapevo che non occorreva in quel momento, solo mi asciugai un’occhio e allungai il passo, maestoso.