racconti e lunghe prose
III discorso, anche il dolore
…e per questo essi si trasformarono in una doppia lama sanguinante essa stessa, altri persero la voce ma non per questo gettarono la loro fine seppure grandemente soffrivano
Il mondo ridotto ad un colabrodo di emozioni. Perché non esistono gli angeli nella storia? Chi è quel maledetto che impose alle favole di parlare solo del demonio? Le persone dimenticarono come salutarsi, le persone dimenticarono come si faceva ad alzarsi il mattino per andare a incontrare chi abitava con loro.
Un giorno un lampo di sole scavalcò la tempesta d’acqua che separava un uomo dall’altro uomo, e quel giorno un nuovo orizzonte vide la luce. Gli uomini cominciarono a conoscersi, a riconoscere i loro errori, a riconoscere che il vago senso di insoddisfazione che li dominava non era altro che il fiore spuntato naturalmente dai semi avvelenati che ogni giorno inalavano e senza saperlo, piantavano. Ma in verità, oggi, lo sappiamo bene cosa stiamo facendo: lo sappiamo quando diciamo di no, quando ci inabissiamo nella distanza dalla nostra anima intesa come gente. Non c’è più l’idea di una comunità appena alzata, un poco sopra la terra, che ignora le distanze ed esiste connettendo tra loro tutti gli esseri affini, annodando anche nella loro relazione il diverso, affinché essi tutti possano continuare a muoversi, e non restino fermi. Terrorizzati gli spiriti degli uomini oggi serpeggiano da un occhio all’altro, guizzano come pesci sfuggenti non appena si fissa il proprio fuoco nel loro. È così distante la nostra umanità, che ciascuno può rendersi conto, di tanto in tanto, di non essere io. Chi c’è? Chi c’è? Chi c’è dietro quegli occhi? Le mani stringono ciuffi di erba che non si strappa, non si secca e non si vede. Ma se solo ciascuno, come talvolta capita, solo guardando il suo con-presente negli occhi spalancasse una porta, assaltasse un muro e… dolcemente, con gentilezza esultasse in un saluto: “eccomi, ti saluto, tu, uomo che non conosco, ma che trovo sul mio percorso, che per fortuna trovo e poi magari lascio, che per fortuna esiste e mi rende possibile sapere, aprirmi, anche combattere, vincere e perdere, ciao. Raccontami qualcosa e io lo racconterò a te, ma fallo davvero te ne prego, poi io, noi, ti diremo qualcosa.” Allora, nascerebbe l’arcobaleno. Gli uomini prenderebbero a comprendersi e non a contrapporsi, anzi a ricomprendersi. Cosa non si può lasciare da parte? Cosa sarebbe questo interesse pressante che spezza ogni altro anelito? Perché ora lo dovete tirare in campo? Perché sacrificare la vita a spacciarsi uomini evoluti? Non vedete le vene pulsanti nel vostro corpo? Non vedete il vostro cuore che infuria all’interno delle città, che grida perché? Ad ogni “notizia”? Ma forse non c’è più nemmeno questo, forse l’oro è stato tanto prosciugato che gli ultimi giacimenti sono ormai troppo profondi, e non resta che cacciarsi a vicenda sotto al miglior gatto, da topi. Questo giorno auspico che mai giunga su questa terra. Combattiamo, uomini che hanno grandi orecchie e occhi buoni, quegli uomini che i mendicanti prendono di mira, combattiamo finché è possibile, perché questo mondo è anche nostro, e finché ci sarà vita il nostro compito sarà proprio quello di fare maremoti, di annunciare ed ascoltare fino al tempo in cui forse o loro o io o voi avremo capito.
I momenti critici dell’esistenza, la guerra e la balena
Così come siamo capaci di godere per il piacere e il bene, allo stesso modo dobbiamo essere capaci di godere anche del dolore. Infatti l’uomo è vivo ed è naturale che esperisca sensazioni ed eventi piacevoli sia sensazioni ed eventi dolorosi. Senza dolore non c’è una delle più importanti ambizioni dell’uomo: l’ambizione della rivalsa, l’ambizione al bene. Perché mai uno dovrebbe volere il bene se tutto è già buono? Ma spesso succede proprio il contrario e l’uomo sembra volere affondarsi da sè con il suo dolore. Lo riconosce, talvolta lo nomina anche, ma invece di goderne, di mangiarlo tutto e viverlo a pieno ci si siede sopra. Questa è la sua fine. Non per forza si deve stare bene, ma assolutamente sbagliato è covare sulla propria interiorità, stare nel disagio e non finire di viverlo, trasformando una fase — anche il bene è una fase — in una condizione cronica. A volte può essere duro digerire un certo male, o un certo bene, ma solo in questo modo si può stare all’esistenza. Altrimenti si è in una nebbia d’esistenza, in cui il nemico è sempre all’agguato, le fasi del vivere non compiono il loro normale corso, anzi, si interrompono, e resta solo la costante condizione di rischio, con le sue normali salite e ricadute. Io propongo di andare in guerra, di assaporare il proprio stesso sangue, di scottarsi con se stessi e di incollare i propri occhi ai propri occhi: fare come fa la balena. Cioè essere capaci di immergersi nei propri abissi, ma anche di riemergere per respirare. Essere noi nelle nostre diverse sfaccettature, investire della responsabilità dell’esistere la nostra interiorità, senza mascheramenti, nebbie, o scioperi (reclusioni e nascondinenti delle nostre rappresentazioni del mondo, delle cose e delle persone). Allora questo come si può riassumere? Direi, come ho sentito in un anime — Terraformas — ridete quando siete felici, piangete quando siete tristi e urlate quando ne sentire la necessità. E infatti questo è essere in guerra. E anche non cambiare argomento o non mettere sul tavolo altro da quello che si dovrebbe dire è essere in guerra.Questa è la mia personale via, quella che penso sia utile seguire. Ma il mondo è enorme, e c’è altro da sapere e imparare. Tuttavia ritengo che un uomo abbia enorme potere sulla sua vita, molto più di quanto si potrebbe immaginare. Figurarsi un atto, visualizzare certi gesti o nutrite fino in fondo nella mente una certa emozione, sono fatti che in questo periodo mi stanno aiutando a comprendere di più il mio modo di fare, i miei desideri e le mie aspirazioni. È come esser nella foresta: ci sono pericoli, bestie, tracce e la tecnica che il viandante, che l’uomo delle genti della foresta, conosce per sopravvivere. Spiriti… tanti io si manifestano davanti all’uomo nella foresta. Ma in fondo è sempre qualcosa che, almeno latentemente, noi conosciamo. E allora viene bene l’induzuone (il camminare da quelle cose appena dette più che si può su su, fino alla loro origine, o perché). Ben vengano i segni, ben venga il dialogo, ben vengano gli amici il piacere e il dolore. Ben vanga la vita come intreccio di relazioni ed esperienza. Se saremo capaci di stare all’esistenza e di estrarre la spada dalla ferita per potercene procurare altre, allora, forse, nel momento fatale potremo volare via verso…
fine
I santi stanno tornando!
Perché gli scarabei galleggiano sull’acqua del fiume e proprio in questo tratto ce ne sono tanti?
“i santi stanno tornando! Sarà di nuovo pace tra gli uomini, tutti saranno salvati e convertiti al vero dio che con la sua grazia dona il Paradiso agli uomini!”
“Cosa vai dicendo? Folle! Demoni! Demoni sono quelli. Ripetitori maledetti che incarnano uno spettro antico che ormai ha fatto il suo corso, gli indigeni sono stati strappati dalla libertà dal suo urlo salvifico, lui, insieme ad altri demoni di altra razza hanno perturbato la terra scavando nell’animo dell’uomo e togliendogli la sua fantasia, la sua intraprendenza e vi hanno sostituito la fede e la fame speculare”
“‘Deve essere così’ è una frase pericolosa, che un altro demone ha incastrato tra gli anfratti delle frasi e dei discorsi degli uomini! La scienza non ha solo preteso di descrivere il mondo in modo accurato, così che tutti potessero fare di meglio, ma ha voluto insinuarsi nelle pieghe della parola spezzando i legami che questa aveva con la spontaneità e la naturalezza dell’interpretazione. Il vero ha rubato il posto che doveva condividere con il falso. Usurpatore di un trono, legittimo possessore dell’altro ha instaurato un regno di terrore dove l’efficacia è stata spazzata via. La realtà è stata totalizzata dai santi e dai lumi e non c’è più spazio per l’indigeno, per il mago e per gli uomini”
“Gridano da ogni dove che l’individuo ha conquistato il mondo e che perverte la mente degli uomini separandoli tra loro e spacciando ideali, impastando trame opportuniste e cancellando ogni traccia di solidarietà e di bene. È il mondo moderno dicono i santi, e la scienza passa sotto a questo attacco, ‘per la scienza!’ Ma non si rendono conto che quello che dicono non è altro che menzogna e ripicca, criticano il non individuo, l’essere che non è mai, perché non sa cosa vuol dire “essere” fuori da quello che le teorie in superficie oggi — ma che potrebbero cadere sul fondo dell’oceano domani — dicono. Atlantide è pur caduta sul fondo del mare”
“Non esiste l’individuo e non esiste la società. C’è solo un cumulo di macerie di un gruppo di selvaggi reali che ha trasformato il mondo dei selvaggi naturali e dabbene in uno specchio. Che ha voluto mangiare tutto e non lasciarsi sfuggire nemmeno un boccone di grandezza. Perché i grandi vengono trasfigurati in santi o uomini con ideali comunitari, ma nel loro senso — il significato che loro danno a queste parole — sporco di sangue.”
“Se i santi vogliono tornare su questa terra dovremo scacciarli con ogni forza, gettargli addosso i testi di tutte le religioni che pretendono di superare e fare lo stesso con ogni altro credo che si pretende universale. Quell’universlale che è solo pretesa, non assenza e slaccio.”
“Lo slaccio libera perché lascia fiorire. La libertà dal volere è essere in grado di volere quello che vogliamo davvero. Se ci chiedessimo perché nel momento in cui vogliamo essere più liberi, affermiamo la più alta libertà, proprio in quel momento ci sentiamo più imprigionati, dovremo rispondere ‘cosa dici, fratello? Non capisco le tue parole: mi appaiono gravate dal vizio della mancanza di mancanza’ la libertà può bene essere un vuoto da riempire con la nostra interpretazione. Non assenza di vincoli, perché questo presuppone dei vincoli e richiede l’azione violenta dello slaccio. Invece lo slaccio che diciamo noi difensori dall’attacco dei santi è uno slaccio che va visto come quel movimento che il fiore fa quando esce dal seme e poi dalla terra. Ha davanti uno spazio e interpretando cosa deve fare procede. Non sa cosa deve fare, perché non ne può avere coscienza, direbbe la scienza, perché vuole, direi io.”
“Ma ai santi e all’uomo giustamente fa paura questa libertà perché sembra una di quelle che non imprigiona e non impedisce in alcun modo. Si sentono minacciati, in pericolo, perché non conoscono la bellezza di aver raggiunto il proprio obbiettivo e il proprio io attraverso un movimento spontaneo e autonomo fin dove è possibile. Loro pensano che l’uomo debba essere limitato nel suo volere di schiacciare gli altri, e giustamente temono di essere distrutti all’interno della loro speculare fagia. Ma l’uomo, l’eroe, non ha bisogno di alcun laccio, e lo sfruttare altri è incatenarsi a loro. È non raggiungere i propri scopi con i proprio strumenti e le proprie alleanze, ed è dunque lo spregevole: il marchio che l’eroe può attribuire alla feccia guardandola anche dalla sua “bassezza” con la bocca davvero più che orgogliosa ‘come se sentisse l’orgoglio di essere orgogliosa’. Allora in questo tempo l’eroe è la vittima che si immola per la sua grandezza e irride chi lo compatisce e si sente al sicuro da chi lo deruba: hanno la loro depravazione e sporco come ricompensa. Questo sciopero dal male è quello che serve oggi e che farebbe una vera comunità, l’ambiente perfetto per realizzare al meglio le proprie eccellenze in ogni campo, con la fiducia e la solidarietà reciproca di chi vuole vedere solo il bene trionfare.”
“I santi stanno tornando… ma noi abbiamo bisogno di eroi.”
L’incontro dei due amanti
Sto pensando ad un racconto, una storia d’amore. Tra le pieghe della giornata ritaglio questi momenti che si intessono di senso, risuonando con il mio sognare Il sentimento. Condivido volentieri con voi questa vibrazione
Per la prima volta capiva cosa significasse davvero essere-per. Non sentiva alcuna costrizione, alcun limite nel suo agire. Lei era come una vibrazione costante nella sua vita, che risuonava e brillava appena sotto la superficie di tutti gli attimi delle sue giornate. Non aveva bisogno di guardarsi intorno, tra la folla, di cercare, di capire: sapeva perfettamente che lei stava vivendo in una dimensione vicina, e poteva ancora sentire il suo peso sul suo corpo, il suo speciale modo di abbracciarlo, e… il battito del suo cuore. Ogni respiro che prolungava la sua vita, prolungava anche il sentimento della sua anima, perché ricordava così tanto il suo profumo. Prima di quel momento non sapevo cosa significasse vivere, ora ogni cosa era più vivace, più leggera. Si metteva di fronte a lui, e lo salutava. Dolce, entrava nel suo io per informarlo della bellezza e della naturalezza che aveva di fronte. Così ora conosceva la natura. E le cose… ah, le cose, avevano tutto un altro senso: ciascuna cantava la sua storia e si stagliava disponibile alla sua mano, al suo osservare, al suo respiro. Era una esperienza tanto luminosa, che nulla avrebbe potuto annebbiarne lo splendore. E quando vedeva il suo viso sorridente, avvicinandosi, ecco che allora tutto, tutta la giornata, l’inciampo sul selciato sconnesso, la fatica della lezione, quel pasto fatto rapido, e l’aiuto dato a quell’uomo per strada… tutto cadeva nel suo giusto posto. Sapeva già cosa lo aspettava quando vedeva il suo sorriso, e davvero, poteva vivere insieme nel presente e nel futuro. Camminava normalmente, e intanto tutti e due si erano già riconosciuti, avevano già pronto l’ordine nelle mani, nei visi: ecco la persona amata, stringila forte, sentine il respiro …e baciala. Così fecero ogni volta, e sempre. Quando si incontravano lui camminava senza fretta verso di lei, gustandosi il mondo che li sorreggeva in quel momento magico. Lei lo osservava avvicinarsi, sentendone gli occhi, ascoltandone il suono, tra tutti gli altri che la circondavano. Poi si riunivano. Tutto il loro tempo non era spezzato in parti in cui non erano insieme, e altre in cui lo erano, no. Il loro tempo era presente. Un presente continuo, accolto da un ambiente infinito, dove ogni particolare angolo o sasso, poteva abbracciare uno speciale senso, se veniva toccato da loro, insieme, e diventare una stella, una segnovia per il loro viaggiare.
Penteo
Articolo che segue al mio Fedro, consiglio la lettura per apprezzarlo al meglio 🙂
https://dustitoffblog.wordpress.com/2016/06/01/fedro/
Fedro tornando dal suo viaggio alla
grotta incontrò Penteo. Camminava solo, attraverso un boschetto di pioppi, con un bastone in mano: lo usavo per esaminare il terreno, le foglie e gli altri rami secchi, disegnando tante traiettorie musicali e oscure nel sottobosco. Oscuri erano quei disegni, come il suo pensiero, che crucciato si rivelava in uno sgaurdo amaro, per lo meno addolorata era la sua bocca, ma non piegata in una smorfia di dolore. L’ambiente circostante lambiva la sua figura, facendolo apparire come un bambino che giochi a cercare gli insetti tra gli arbusti con uno stecchino. “Penteo! Che ci fai lì nel boschetto tutto solo? Qualcosa ti fa soffrire?” “Chi è?” Ah, sei tu Fedro! Ah… Vedi, non so che dire, mi sento diviso in due… Sai, mi stavo chiedendo chi fossi, e improvvisamente, ho trovato che io non sono più io: Penteo. Infatti, quando sono contento e beato, — tu sai quando intendo no? Da buon poeta che si rispetti solo quando le muse mi carezzano col loro vento io sono in me — credo di poter vivere davvero come si deve, ma quando non ho il favore delle mie muse… Ecco allora che mi capita di chiedermi, se sono sempre io, quello che sento parlare, di cui vedo le mani, e di cui tocco i capelli, sentendomi mi perdo… Fedro…” “Oh Penteo… Credo di capire cosa stai dicendo. Sono molto preoccupato per questa tua situazione, perché so fin troppo bene dove può portare. Ma vedi, io sono appena stato in quella grotta dove si dice sia rifugiato l’aedo, il nostro amico, te lo ricordi?” “Certo, come potrei dimenticarmene…” “Ebbene, io ti giuro sul mio corpo che là egli è ancora vivo, e accoglie i suoi amici che vogliono incontrarlo, per parlargli come sempre… Quando lo si incontrava sulla strada…” “Tu vuoi farmi ancor più male Frdro! Perché mi ricordi quell’uomo e ti prendi gioco di me? Amaramente penso alla sua scomparsa ogni giorno… E vorrei davvero ci fosse ancora per potermi consolare della sua presenza nel mondo…” “Ah! Ma Penteo, davvero! Io ti giuro che lui è là, e anzi, ti dico, vai tu stesso a vedere! Saprà di certo farti rinascere a dovere. Anche io dopo averlo visto mi sento di nuovo bene, sono pronto a compiere la mia strada… Sì, addio Penteo. Mi spiace molto per le tue disgrazie.” Fedro si avvicinò a Penteo, e senza dire nulla lo abbracciò sorridendo: Penteo si sentì avvolgere come dalle morbide acque di un fiume, e strinse per un istante l’amico. Aveva riconosciuto quell’abbraccio, quella natura. Decise senza indugio di partire per la caverna indicata. La strada non era troppo lunga, ma nemmeno troppo corta, era una strada sufficientemente tranquilla e farla portava spontaneamente a vagare con il pensiero, a purificarsi prima di vedere la costa del mare, godere di felicità nel cuore, ed infine raggiungere l’antro. Da dentro si udiva qualcuno suonare il flauto. Penteo si precipitò nella bocca, cadde a terra e rotolò verso il fondo, sentì calore mentre scendeva ma non si ferì, solo arrivò di fronte alla parete finale tutto dolorante e pieno di sabbia, restò per un poco di tempo così: bloccato a terra, fissando la sua ombra proiettata dal sole dietro di lui sul fondo della caverna. Una voce lo risvegliò dal suo momento di disorientamento e stupore. “Penteo! Guarda chi si vede! Come stai, mio caro? Ti vedo addolorato e dolorante, sembra che tu abbia scoperto uno dei più brutti segreti dell’universo…” Penteo non credeva ai suoi occhi, li spalancò, lucidi, vividi come quelli di un cavallo di fronte al fuoco, o alla guerra, o a qualcuna di quelle cose a cui un cavallo non potrebbe credere. L’aedo che tanto aveva imporporato i suoi giorni più gioiosi ora era lì, e lo guardava benevolo in volto. Carezzò il suo capo. Quel modo che solo lui aveva di trattare con gli uomini… “Aedo… Allora sei davvero qui… Fedro aveva proprio ragione, me lo sentivo, da come mi ha salutato…” “Oh, Penteo, certo che sono qui! Come avrei potuto abbandonare i miei amici, la terra, quando il mio lavoro, ahimè, non è ancora terminato? E vedo che anche tu qui hai bisogno di esser curato. Pare che tu abbia visto uno spettro, proprio come il tuo omonimo, ingannato da Dioniso [mi riferisco qui alle Baccanti di Euripide]” “Sì, e in un certo senso proprio Dioniso mi ha preso: mi ha tolto tutto, la mia identità… Io non sono più io, aedo. La poesia, la mantica ha rapito me, Penteo. E chi è restato, qui?” “Vedo il tuo problema, Penteo… Quello che ricerchi non è per nulla facile. Tu sai, che quando il poeta canta, esso è portato dalle muse sulle loro vie. Esso abbandona la sua normale coscienza, l’anima esce dal corpo, e in piena tranquillità si sposta in una zona superiore, a lei altrettale. Ecco, Penteo, se tu ora guardassi quella zona, cosa vedresti?” “… Io vedo luce, e sento un forte vento che mi chiama il cuore, ma sono fermo, e sento come di non riuscire a muovermi” “sei fermo, ma non dove dovresti” “come?” “Guarda bene, accanto a te c’è il tuo carro, perché non sali, e ti fermi su quello? Non è la tua casa?” “Sì… Ma non ha i cavalli attaccati, come si può stare fermi su un simile carro? Continuerà a ribaltarsi in avanti” “Ma tu sali, Penteo, non preoccuparti,” Penteo si avvicinava al carro e vedeva che pian piano, questo si trasformava: era ora una sorta di asse, con due ruote e dei grossi mozzi pungenti da entrambi i lati. Al centro c’era una parte più larga adatta al conduttore, ma niente indicava la necessità di attaccare cavalli, ad un carro così strano. “Questo mio carro è davvero strano, non mi pareva certo così fatto… Eppure lo riconosco, questo legno… È proprio il mio. Bene, sono sopra aedo!” “Bravo, Penteo, ora fai attenzione: devi stare ben in equilibrio su questo carro, perché non hai i piedi per terra, se tu ti sposterai in avanti questo avanzerà, se indietro retrocederà , e così via. Quando tu canti la tua poesia voli, e sali verso le zone più pure dell’esistenza, ammantato di oro e bianchezza puoi osservare le cose, ammantandole con il tuo sguardo, puoi dar vita ai profumi, agli antichi sensi e a uomini che non sono più viandanti… Puoi dipingere senza colori, e puoi allacciare insime i più elevati sentimenti fino a costruire un arazzo meraviglioso. Ma quando sei sulla terra la sua forza ti ci tiene attaccato, è normale, Penteo. E tutti noi crediamo di dover starcene così attaccati a terra, perché abbiamo paura di cadere, come siamo senza ali! Ma chi ha imparato a sorvolare queste altezze, a sporgersi oltre la stanchezza del giorno, costui ha anche imparato a vivere nell’elemento aereo e alzandosi un poco, sopra il suo carro, deve stare in equilibrio!” “Se tu saprai mantenere la tua posizione, senza mai retrocedere dinnanzi al nemico, allora sì che sarai sempre in te: concentrato nello sforzo di stare in piedi, alato, sopra la massa dei granelli di sabbia e con lo sguardo che esige di tagliare in due un blocco di ghiaccio, per vedere cosa c’è nel mezzo…” “Aedo, le tue parole, come sempre, sono sagge. Io non vedo, eppure credevo di vedere… Proprio come il mio omonimo, Penteo. Mi hai iniziato al vero culto bacchico! Non sarebbe strano se ora mi mandassi anche da mia madre per farmi a pezzi… Sì, una vita nuova, espansa e dispersa per poi stare, uno nel tutto… Spezzare lo specchio. Non è facile davvero stare sopra al carro. Molti uomini nella foga si lasciano trascinare a terra e rotolano poi insime alle pesanti ruote, senza più riuscire a salire, e dato che vedono i loro compagni fare lo stesso, credono di essere in una condizione corretta e normale. Ma non è questo il giusto modo di condurre la propria vita… Lo so, ora lo vedo più chiaramente… Ma tuttavia, mi manca ancora qualcosa, aedo…” “Penteo. Non ti manca nulla, a nessuno manca nulla. Questo stesso modo di comportarsi ti pare sia manchevole, ma non sei obbligato a seguirlo, vedi, se ti alzassi solo un poco, e poi ti volgesti subito indietro, vedresti bene in che posizione ti trovi. Ma come tu dici, dalla terra, chi mai potrebbe conoscerne la superficie tutta senza levarsi in cielo, o su un monte? Il Citerone, magari. Quindi questo io ti dico, vai su un monte e osserva la terra, poi torna a casa e osserva te stesso. Continua e continua ancora, finché non avrai impresso dentro di te la giusta forma, quella dell’uomo, come io la disegnai, prima di gettarmi dalla scogliera. Deluso dagli uomini che tu racconti decisi di partire, e il dio, per punirmi, in questa grotta mi lasciò, affinché avvisassi e aiutassi gli altri a non gettarsi prima del tempo. So che è difficile, Penteo… In noi ci sono come due principi: uno dell’indolenza, l’altro dell’attività, sempre noi siamo indulgenti con noi stessi, e così diamo nutrimento al principio dell’indolenza, sin da piccoli, ogni cessione, ogni rimando ci spingono nelle fosse della terra. Ogni rinuncia, ogni spostamento di un problema, non tagliato adeguatamente con lo sguardo, ma gettato da parte intero, annebbiato affinché non ce ne ricordassimo più… Tutte quelle frasi comuni, quei giudizi ingiusti verso certe azioni che pure riconosciamo errate o insufficienti. Non devi mai arrenderti Penteo! Stai sul tuo carro e scaglia le tue frecce senza mancare il bersaglio, con la giusta forza. Valuta.” “Nutrirai così il tuo moto attivo, e lo renderai il più forte. Sono queste due naturali tendenze nell’uomo, ma la scelta su quale coltivare spetta a ognuno di noi, alla nostra anima.” “Tu hai visto che la sola poesia non basta ad allevare un uomo, finisce per sdoppiarsi in due per l’eccellenza che lo attrae magnetica, e poi quando le muse non lo carezzano si sente come sperduto. Ma c’è un tipo di vista e di giudizio che può salvarti! Quel richiamo e quel pensiero autentico che è la filosofia, Penteo. Queste due attività hanno in comune il modo di vedere, e la luminosità dello spirito, ma dove una è condizione temporanea, che avvicina al divino, l’altra è saggezza umana, che va alimentata ogni giorno.” “Apri bene gli occhi, Penteo…” Un velo silenzioso avvolse la caverna, le fiaccole e le luci che la illuminavano tremolarono, e l’aedo si avvicinò a Penteo, che meditava su ciò che avevo ascoltato, gli poggiò una mano sulla spalla, e questi, tanto era intento nel suo ragionamento, quasi non se ne accorse. Sentì, “Addio, Penteo,” intravide un sorriso aperto, una leggera stretta sulla spalla, e allora alzò lo sguardo per salutare il suo amico, ma non c’era più nulla. Sentì solo un soffio di vento che lo avvolgeva. Sorrise e si incamminò verso l’uscita della caverna. Era difficile camminare sopra al proprio carro, eppure, come un giovane cavallo, avrebbe imparato a correre anche in battaglia, contro al nemico, senza paura. Pochi passi fuori dalla foresta vide una fonte bellissima, si fermò, ispirato dalla musa, e fece questo il suo stile di vita. Osservare ogni giorno la fonte meravigliosa dei giorni, attraversare ogni sua azione con uno sforzo decisivo. Sì, era questa la vera via per salvare Tebe: non l’assoluta resistenza, n’è una fluidità che annebbia ogni cosa.

Occhi.
I suoi occhi erano brillanti, verdi quasi quanto quegl’altri, quelli in cui, specchiandosi, aveva visto, aveva capito il mare che separava ogni essere dalla sua fine. Un verde, che traspariva sotto al marrone chiaro, quasi giallastro, e la pupilla che rifletteva la sua figura, in piedi, davanti allo specchio. Le lacrime avevano colorato il suo respiro e la sua voce cantava più soave che mai, quanto un vino pregiato, innocente, scendeva, sempre più velata, nelle viscere della sua anima: anche i combattenti di maratona avevano temuto, anche loro avevano compreso il rischio al quale si esponevano, ma nel momento supremo, avevano fatto la loro scelta: sì, combatteremo per il valore, sì, noi ce la faremo, mai la Persia agguanterà la Grecia… Mai l’alba dell’ultimo giorno vedrà un uomo piangere per le sue pene, si deve correre più veloci della paura, del timore. Si deve correre più veloci del successo, che intossica e ruba la vita dei nostri corifei. Non è quello infatti che cerchiamo, no, questa è un’altra illusione dell’uomo, di quel “deve” che maledice la sua natura, non è con il successo che ci si guadagna la felicità, la finalizzazione… Ma è con il valore, il coraggio e la pienezza di spirito che si può marciare trionfanti sui cadaveri dei nostri sospiri contorti. C’è la possibilità di fermarsi, di riprendere ciò che è nostro, ma mai dobbiamo disperderci nel flusso della storia ammagliante, che incatena. Uomini liberi, uomini che camminano con lo sguardo illuminato, che non sono forse ammantati d’oro, alcuni sì, altri no, ma tra loro si riconoscono con un tremito del cuore, tutto il resto trema sempre, ma come una foglia al vento, il respiro dei primi invece si mescola a quel vento, e dalle profondità degli abissi, alle altezze del cielo, è lo stesso delle aquile e delle balene.La sabbia del tempo scorre per tutti, rotola in ogni direzione, ma chi ha scelto di andare a Maratona, ha scelto di farsi proprio quel tempo, ha scelto una via diversa e sa quale sia la sua giusta canzone. La sente, la vede dinnanzi a sè, come il più semplice dei fenomeni: il giorno e la notte che si mescolano ed ecco che si fanno in uno, dietro alla grande porta di bronzo. Il desiderio di avere una vita splendente, che anche solo per un istante brilli dello sforzo e incarni la scintilla di ciò che non dipende più da nulla, se non da tutto ciò che è stato fatto, e dai propri alleati… Niente compromessi, niente imbrogli, niente malizie profittatrici: solo, un bimbo che ancora ingenuo, anche se vecchio come la terra, si stupisce di fronte ad ogni cosa particolare, ad ogni errore, ad ogni gioia.
Non capisco il vostro mondo, e quando scendo in esso sembro ridicolo, ma provate a salire da me, allora vedrete, non tutti rideranno, ma solo quelli che si rendono conto di esser privi di formazione… Ancora un ricordo antico, non io parlo ma vedo ciò che Platone intendeva. E capisco il suo vissuto. Forse non sarò mai di questo tempo, ma tenterò di formarmi come un uomo libero, un uomo amico, un uomo che negli occhi del suo vicino cerca solo la stessa luce che può intravedere nei suoi, e che sempre, insieme va alimentata… Lacrime prima della guerra, sono lacrime che sanno già che in fine, può esserci la vittoria.

Purificazione
In un sottopassaggio, freddo… Laido, laido delle macerie di una civiltà che ha gettato il suo veleno nell’aria e nella terra fine a spegnerne ogni luce, … giace un cadavere: gonfio, malato… Forse ancora rantolante. Sembra una grossa foca, o un cane malforme. Ha il pelo grigio, ma non di sua natura, è sporco, polveroso e intriso di tristezza: la percepisco nell’aria, tetra e mortifera come l’odore della pioggia, che si infrange acida su siepi alterate nella loro origine, fin nelle loro radici: anch’esse malate e impure, come la terra che stritolano impotenti. Accanto al cadavere c’è un piccolo essere, un bambino accovacciato, con in mano un piccolo bastone: si diverte (?) a punzecchiare la bestiola. Mi avvicino, i miei passi scricchiolano sui vetri rotti e sulle macerie di calcestruzzo e laterizio. indistinguibile il suono di uno dall’altro, solo, agghiacciante stritola il silenzio che pesante grava sulla scena. Ecco, sono davanti al bambino, davanti alla foca, davanti ad un muro stinto e macchiato.
Il piccolo si volta… È un demonio: occhi rossi, pelle grigiastra e lingua insanguinata… Mi osserva con i suoi occhiacci, la colonna vertebrale che affiora dalle sue carni orrende mi getta in mente sinistri pensieri…
“Che fai? Che fai con quella bestia, è morta ormai. Perché continui a punzecchiarla?”
“… …” “Non c’è niente”
Gli prendo la mano con il bastone, lo afferro e lo getto lontano.
“Abbiamo distrutto la terra, ridotto a immondizia tutti i suoi esseri, invitandoli alla ricerca del potere facile, della soddisfazione rubata e del veleno che brucia sulla pelle del simile nemico. Abbiamo dipinto tutto di grigio, di sporco, li abbiamo uccisi! Da dentro, capisci! E quegli sciocchi si sono lasciati catturare, hanno addentato la nostra esca impura e sono caduti nella trappola! Abbiamo trasformato i loro corpi in macchine, la loro mente in mazzi di chiavi rotte, la loro lingua in germi. Abbiamo spento in loro ogni ritegno naturale, assoggettato il loro agire al bisogno e alla pietà velenosa, consumato le loro carni lentamente, strappandoli nel loro ultimo momento di vita con vomito di fuoco. E sai chi siamo noi?”
“… Sento le tue parole, le sento. Le vedo… ma come tu vedi io ci sono, chi sei tu, allora?”
“Hahahaha ma sei anche tu un mezzo fantasma su questa landa, presto una foca schiacciata dal peso della tua stessa volontà, forse sana, forse troppo insana per sparire senza lamento…. Chissà… Beh, che importa, posso ben dirti quello che sono, dato che tu tanto stai scomparendo”
“Non ingannarmi, e vai avanti. Come vedi ho io il bastone dalla parte del manico”
“… Sei furbo, ma non dove dovresti. Noi siamo la sete, l’ignoranza, la nebbia che ti scioglie da ogni scrupolo. Noi presto veniamo in tuo soccorso ad ogni “ma sì” ad ogni tuo oppurtunismo, ad ogni tuo inganno o sopruso e ti culliamo nella dolce e velenosa certezza che sia qualcosa di cui non preoccuparsi troppo, e ti cancelliamo ogni rimprovero saggio, lo trasformiamo in voce capziosa e malferma. Carezziamo la tua morte e i tratti viziosi della tua persona, schiacciandoli ancor più negli anfratti degli scogli del mare della coscienza, così che l’avvelenino tutta. E nessuno può sfuggire. Nessuno! Non vedi quanto ancora si accaniscono sui morti, sbranano le loro membra con le loro fotografie, con le loro urla demoniache? Quanti ancora si godono il lusso comprato da altri, inventato da altri, cercando di appropriarsi più di quanto possono, porci ingordi e mai sazi dell’amor di sè sciupato: quelli che si annaffiano di champagne non per celebrare il loro successo, le loro fatiche, ma la loro malversazione, il loro passo sinistro. Quelli che dovrebbero curare un gregge di pecore, ma invece lo sbranano godendo del sangue dei loro fratelli. Quelli che piangono, piangono allo specchio, ma ridono, poi come oche e galli ebbri in mezzo ai loro schiavi e ai loro amici, ma in realtà si guardano tutti con sospetto e invece di cercare una qualche giustizia se ne beffano, affermando che il mondo è fatto così, che ne hanno il diritto, o che gli altri se la caveranno.”
“Tu… Tu! Sappi che se io dovessi cadere sarà solo per la fatica di stare in pedi, da solo, senza alcun contrappunto saldo a carezzare la mia anima. Un altro demone scortica la mia anima, il demone della consapevolezza del mondo, il demone dell’indisponibilità a sfuggire all’inesorabile ciclo del nulla. Quel demone del “o tutto o niente” ma questi demoni sono forti nella mia anima, e non sordi di fronte alle esigenze del modo, quello vero, non sordi di fronti alle esigenze dell’io, non si stancano, e se lo fanno, se lo rinfacciano lacernati. Ma così deve essere l’esistenza: io, al mio ultimo respiro voglio guardare indietro e gioire, mai mi prenderete con il vostro veleno, ho già il mio e lo posso iniettare anche a voi. Ribolle di pace lo spirito che sa di non essere ancora felice, ma che sa che potrà esserlo, e intanto è calmo, tranquillo, osserva ed è osservato, cerca negli occhi degli altri la loro natura, una possibile via di accesso alla storia delle storie, all’ esistente-esistito, e se lo trova spera in un contatto diretto, tanto tremenda è la sua profondità. Allora si storna da sola, oltre il riconoscimento appare augusto, ed ecco che c’è l’emersione. E tutti aspettano questo invero, ma voi corrompete quanti più potete… Ma non potrete sconfiggere la forza della sofferenza: la sofferenza indistruttibile che si accetta pur di non macchiarsi di empietà verso la natura. Un canto libero e doloroso che però squarcia il velo della falsità e si staglia infine sulla luce di un’alba futura. Non è giustizia questa a cui voi portata la realtà, è morte… Ma, ci sono ancora tante fiaccole accese nelle città rimaste in piedi. Le ho viste: hanno un nome! Ho visto uno spettacolo teatrale, fatto con passione e sfavillante della luce del giusto impegno, che schiaccia e annienta ogni senso di scurezza, invitando alla condivisione dell’emozione. Ho ascoltato un concerto, un concerto in cui ogni suono veniva direttamente dall’anima: quel suono… Il solo perfettamente armonizzato con il suo sostegno, l’immagine che dipingeva… L’avessi vista: non avresti potuto fare a meno di bruciare nella tua bile, maledetto! E uno scienziato, giovane, lavorava alla ricerca di un fluido per risanare la terra, lavorava per il suo bene, per il bene di tutti, con la luce negli occhi. Un dottore, che curava, ricuciva una belva strappata in mille pezzi, le ridava vita con le sua sapienti mani, riaccompagnandola all’equilibrio che poteva. Un poeta, piccolo, incerto, che guardava tutto il mondo commosso, avresti dovuto vedere i suoi occhi, mentre si interrogava sull’identità dell’uomo, sul perché del male sulla terra, sul come vivere al meglio la sua arte e la sua vita.”
“Ma io, mezzo scomparso, come vedi, ho ancora un cuore che batte e non mi nutro di nulla, se non della ricerca dell’amore…”
“Tu non sei un uomo di questo tempo mortale. Io non ho potere su te e la tua stirpe… Pensavo che ti saresti piegato da solo, ma davvero hai tanto violentato il tempo che ne sei uscito fuori. Sta bene, voi potrete tentare di ricostruire la terra, ma sappiate che noi abbiamo una grande forza, e voi siete solo un pugno di effimeri, ma tu lo sai… Non ricerchi nulla di più se non l’amore dici? Sei una bestia strana. Ma se un giorno sarai ancora vivo e ci rincontreremo forse ci sarà altro da dire.”
[dal cielo, fuori] “Vattene bestia amara, lascia questo. Tu, uomo resta lì. Devi scoprirlo ancora qual’è il tuo posto, ma se seguirai la tua natura non avrai dubbi. Molti li porto con me e saranno solo insieme da un’altra parte, più bella di qui. Io sono come questi demoni, ma demone del cielo. Tu resti qui, sei una specie che non so identificare.”
Ritiro la penna, cala il sipario della calma. Questo è stato detto, duro, difficile, forse inutile. Ma ogni volta che si deve partorire qualcosa è bene arrivare fino in fondo.
I cuccioli di cavallo muovono passi incerti sotto la tiepida luce della luna.
Fedro
<questo è l’ultimo brano in cui mi ispiro a Platone, l’ho scritto circa un mese fa… Sono cambiate molte cose, ma è come l’alba di uno sforzo nuovo. Che già opera negli altri miei ultimi brani, lo voglio porre qui, come segno del mio percorso. Buon viaggio cari viandanti>
C’era una volta, in un paese lontano, in un tempo in qualche modo vicino un banditore. Era un tipo speciale, sempre vestito da aedo, con un portamento maestoso. Si scomponeva solo quando dava il suo spettacolo. Capitava infatti a volte di vederlo di fronte ad un monte, un fiume o una distesa di campi dorati: lì pretendeva di dare spettacolo. Indicava il panorama, gridando “venghino signori! Venite a vedere le meraviglie della natura, fermatevi qui con me a dare un’occhio al panorama, ma che occhio! Diamoci una mano, due gambe e tre capelli!” Poi, quando aveva raccolto abbastanza gente, si gettavano in mezzo alla natura e giocavano a prendersi, o a rincorrersi. Erano come invasati agli occhi dei passanti, ma parevano divertirsi un mondo. Così parecchi avevano voluto provare questa sorta di rito e ormai moltissimi seguivano il banditore, ma nessuno sapeva dove si sarebbe fermato la prossima volta. A volte capitava di trovarlo durante i propri viaggi, che camminava pensieroso per la strada. Si fermava sempre incrociando l’amico e lo salutava gaiamente, con un gran inchino, poi proseguiva verso il “dove”, come diceva lui. Era un individuo enigmatico e allettante! A volte poi si fermava con qualche persona incontrata per strada e discuteva, a viso aperto su vari problemi, problemi reali, infatti non si interessava per nulla di tutto ciò che era vagamente legato alle cose che le persone credono buone… Invece andava sempre in cerca di qualcosa di nuovo, o forse, come diceva lui “Di riconosciuto ma di non conosciuto e ricordato”. Un giorno il banditore si trovava in una regione costiera, con alte scogliere che sembravano esser state strappate direttamente dalla costa: aguzze e frastagliate tangenti che si infrangevano nel mare spumeggiante: cascate di terra cristallizzata che schianta sul sale dell’oceano infrangendolo per finire dolcemente dentro di lui, in profondità, accoccolate sul fondo sabbioso. Era incantato da questa visione e invitava tutti a dare un’occhiata. Chiedeva anche ai passanti di provare a descrivere quello che sentivano, quello che vedevano, ma di nessuno era soddisfatto. Decise così di gettarsi anch’egli nelle profondità dell’oceano: un tuffo eterno, seilenzio… Il vento è piacevole da quassù, vedo i gabbiani che volano sopra di me, l’acqua si avvicina, ne sento il profumo e la dolce voce di richiamo… Poi l’impatto: suono d’immersione amplificato all’agghiaccio, schizzi rossi che si sollevano, nessun lamento e… La riemersione, il nuoto verso riva! Era vivo, troppo vivo per quella caduta, pensarono gli uomini che lo avevano veduto cadere. Da quel momento nessuno ne seppe più nulla, ma si dice che in una grotta, poco lontana dalla spiaggia in cui tutti lo videro chiaramente approdare, si possa talvolta udire il suo canto. Il suo cadavere? Se esiste non è su questa terra, dove sia andato dopo tutti questi anni nessuno lo sa. Certo è che a volte c’è ancora gente che corre gaia e serena nei luoghi in cui si fermava a declamare, e c’è persino chi giura di averlo rivisto proprio in quei luoghi, come un fantasma? Non proprio, dicono “come un ritornante”. “Ma tutti si ricordavano di lui e si interrogavano sulla sua storia?” Non esattamente, per alcun tempo ci fu una sorta di caccia alla sua figura, tutti erano smaniosi di sapere se fosse davvero sopravvissuto con tutti i suoi soliti inviti a guardare e vivere a contatto con l’ambiente, a curarsi del sè e a cantare insieme a chi ci stava a cuore. Poi quando questi si stancarono di cercarlo restarono le testimonianze di chi lo aveva visto, chi ci aveva persino parlato, ma nulla di preciso.
Io lo conoscevo bene quel viandante e spesso avevo condiviso con lui la strada, solo non avevo saputo mai compiere fino in fondo il suo cammino, non lo avevo compreso bene, o forse non riuscivo a seguirlo? Dovevo forse ricominciare da zero? Meglio cento giorni ben vissuti che un anno o più fitti di inganno. Andai allora nella grotta dove dicevano si fosse rifugiato dopo la sua scomparsa nel mondo dei vivi. Vi dirò la verità: io quel giorno entrando sentii qualcuno che mi chiamava, era proprio lui! Mi aveva riconosciuto e veniva ad accogliermi, maestoso come sempre, con un sorriso davvero umano sul viso, ma non era “troppo umano”, no, era davvero umano! Mi prese il braccio e parlando gentilmente mi condusse verso il fondo dell’altro: c’era un fuoco che proiettava sul fond della caverna le nostre ombre tremanti, meglio, la mia sembrava così piccola e labile in confronto alla sua… Ci sedemmo con la schiena rivolta verso l’apertura, le gambe incrociate, tranquilli a guardare la semioscurità illuminata dal fuoco e dalla luce del sole alle nostre spalle, che filtrava accarezzando l’aria della caverna. Dopo un po’ di silenzio, quando la mia ombra si fu completamente abituata all’ambiente e anche il mio respiro ormai era tutt’uno con il vento, l’aedo prese a parlarmi. Sorrideva sicuro ed i suoi occhi splendevano di un colore che non saprei descrivere: “Sei il benvenuto, o Fedro, spero che il tuo viaggio fin qui, la tua discesa, non sia stata troppo faticosa e irta di pericoli, ora che vedo che hai perso la tua lanterna… Sei qui per questo, non è vero?” “Sì, sono proprio qui per questo credo, ed è un grandissimo piacere incontrarti, aedo, è da parecchio tempo che non sento la tua voce e che non mi unisco ai tuoi giochi, sai, molti tentano di fare il tuo stesso mestiere là fuori, ma non è proprio la stessa cosa… Tutt’altra era il tuo teatro!” “Oh, me ne rammarico molto, Fedro, ma vedi, il fatto che ci provino è già una grande felicità per me, saranno uomini coraggiosi e belli quelli che si allenano su questa via e imparano qualcosa. Ma veniamo a te… Io vedo che tu sei piuttosto stanco e hai bisogno di cure, bene. Senti, quand’è l’ultima volta che hai dato un abbraccio sincero ad un amico?” “Non saprei dirlo, amico mio” “Lo vedo. Ciò che ti manca, Fedro, è un po’ di coraggio, non sei certo un vile, ma sei troppo concentrato in te stesso, dovresti invece aprirti al mondo… Giusto quel tanto di più che basta per andare da un tuo amico di cui ti fidi per abbracciarlo e parlare insieme a lui. Ecco, vieni qui, io ti saluto” mi avvicinai all’aedo che mi strinse appena, era qualcosa di strano, mi stava certamente abbracciando, ma sembrava che io fossi immerso in un fiume: l’acqua incontrando la mia figura si allargava e cingeva il mio spirito come purificandolo da tutti i dubbi e i pregiudizi che potessi avere… provai solo una cosa: il sincero. Lo strinsi a mia volta, appena, come stava facendo lui… Quando ci fummo separati tornammo ai nostri posti, mi disse “Vedo che hai compreso ciò che intendevo, sembra strano che proprio io che non mi faccio vedere da tanti anni ti predichi di aprirti al mondo… Ma io sono qui da questa parte ormai, e aspetto chiunque voglia venire a trovarmi con grande contentezza, anche se in vero… Sono e non sono. Ti spiegherò più chiaramente visto che vedo che non capisci, giustamente, immagino. Io ho sbagliato, ho deciso di abbandonare l’uomo e di rimescolarmi prematuramente nella natura. Ero desideroso di rivivere nei campi, nel soffio del vento, in ogni mio amico che si fosse ricordato di me, ma il dio rimproverandomi per questo decise di chiudermi in questo antro affinché continuassi ad esser uomo, pur essendo natura. Così sono qui da molto tempo ormai e chiunque passa per queste gole lo accolgo in questa mia dimora per liberarlo, proprio come te…” “Liberarlo…” “Sì, Fedro, liberarlo da inutili paure, dal terrore che percuote l’uomo: la solitudine, che lo spinge a volte in spelonche molto più buie di questa. Lo invito invece a partire, a prendere in considerazione il proprio sè autentico! Sai, in noi ci sono molteplici parti, che se ben accordate producono un suono bellissimo, quando invece c’è qualche granello di sporcizia o le parti non sono ben combinate, il nostro canto è come quello di cigni: bellissimi uomini che cantano sgraziatamente, se non prima di morire, quando esprimono il loro più bel canto, poiché orami, le parti che sono più sensitive e indovine di noi, hanno già sentito il profumo della fine e allora, insieme, tutte provano cordoglio e si chiedono se saranno ancora insieme. Ma io devo ancora dirti di quali parti si tratta. Bene, considera questo come un discorso verosimile, non vero, perché è l’argomento che governa la più o meno verità del discorso su di esso, e di questi elementi — se vuoi chiamali nel loro insieme anima — nessuno sa nulla di certo. Devi sapere dunque che dentro di noi vivono tre oggetti in comunicazione tra loro: una sorta di stanza, che contiene un blocco, un cubo di qualche materiale simile al ghiaccio e una fontana che con il suo getto tiene il cubo in equilibrio e sollevato dal pavimento della stanza, che però non è bagnato, quello della fontana è infatti una sorta di fumo evanescente ma molto intenso a toccarlo. Questi tre elementi sono rispettivamente il nostro carattere superficiale: il noi che osserva se stessi — quello che contiene, dico — e può parlarci, dialogarci a volte interrogandolo, a volte costringendosi a rispondere. La fontana è il flusso della volontà, dei desideri e della verità. Il cubo posto sopra essa è come il nostro giudizio accorto, è il principale interlocutore della stanza, e a volte la consiglia su come agire o su che dire, su cosa deve pensare… Il fatto è però questo: il cubo e la fontana sono in un rapporto strettissimo: uno con il suo peso schiaccia la il flusso ascendente e tenta di stare in equilibrio, l’altra spinge in alto il cubo e lo fa traballare a volte gridando a volte pretendendo, a volte indignandosi o approvando con gran forza l’operato dei tre insieme. La fonte è il cubo discutono spesso e volentieri, e quando la fonte è troppo pressata a volte compie il suo moto con gran forza e fa pericolosamente traballare il cubo, che allora si schiera dalla sua parte e comunica alla stanza il messaggio segreto che sale dalle nostre profondità. Ora, quando le tre parti, come dicevo, sono in armonia la stanza è pulita e ricca di ordine, la fonte spumeggia in modo vivo e costante sollevando il cubo sino a mezza altezza della stanza, ma senza fargli perdere l’equilibrio: in questa condizione noi siamo perfettamente in pace con noi stessi: vediamo e sentiamo chiaramente il messaggio del cubo, che tiene conto felicemente anche del messaggio della fonte e ce lo comunica, così che noi possiamo decidere cosa fare e come comportarci in maniera assolutamente calma e sentita. Lo stato di equilibrio non si mantiene però facilmente, o Fedro, infatti la fonte è molto capricciosa agli eventi, e il cubo piuttosto pesante da sorreggere, così ci si deve impegnare, con il proprio sè a discorrere spesso e volentieri con gli altri due, così da mantenere l’autenticità della propria persona. Chi si lascia distrarre dagli eventi e taciturno osserva lo spettacolo: la guerra dentro di sè come specchio della guerra di fuori, non potrà mai accedere alla felicità, al bene compiuto con coscienza e con cuore leggero.” “Perciò, o Fedro, se vuoi tornare ad essere ancora felice e onesto con te stesso, ricorda questo mio piccolo mito e cerca di occuparti tanto del giudizio che del sentimento, vivi sognando ma vedi accanto al sogno insieme anche il mondo vero, non perderlo di vista, ma sappi invece che non è un obbligo nè un divieto. E cerca di avere ancora più fede negli uomini, gira il mondo se puoi, nascnde cose meravigliose in ogni angolo e diffondi la tua storia, il tuo ed il mio gioco! Infatti tutti dovrebbero seguire a tendere, a guardare verso qualcosa. Tutti dovrebbero sapere che non si può giocare con il proprio sè, solo con le cose e con i propri amici è bene scherzare in modo serio. E ridi, sorridi Fedro, che il tempo è ancora tutto tuo su questa terra. Come ultimo consiglio, o Fedro, ama, ama davvero: questo è uno dei sentimenti che tengono tutta la tua interezza in armonia e passione, in attività, non scegliere mai di amare per finta, o non amare mai in frazioni come quelle su cui discutono i matematici, ama invece per intero perché due diviso per due risulti uno.” “E Fedro, mi raccomando, so che tu avevi in mente di relaizzare un certo sogno, e ti impegnavi moltissimo per quello, vedo che lo fai ancora, continua così, mio caro, insieme a tutto il resto.” Dopo che l’aedo smise di parlare mi accorsi che i miei occhi erano spalancati, come accecati da una luce fortissima lacrimavano e dovetti chiuderli. Quando li riaprii non c’era più nulla: la caverna era vuota, buia, calda matrice senza fuoco nè sole. Sentivo ancora sul mio corpo la corrente di quel fiume… Vacillante mi alzai e inizia la mia ascesa, non so quante volte mi girai indietro, speranzoso, con un sorriso gentile in viso, so solo che quando uscii alla vera luce il mondo non era più quello di prima: sorgeva un giorno nuovo, di primavera… Appena mi riabituai alla luce mi voltai e appoggia il mio bastone accanto all’apertura della caverna: era un bastone che conservavo da tempo, un dono di un vecchio amico… Poi sorridendo inizia ad avviarmi verso casa, sapevo perfettamente cosa avrei fatto lungo tutto il mio cammino. Il vento mi era favorevole e in un sussurro mi disse “Addio, mio caro Fedro, un giorno saremo di nuovo insieme, ora tocca a te essere insieme”… Non mi voltai, sapevo che non occorreva in quel momento, solo mi asciugai un’occhio e allungai il passo, maestoso.
Tragedia da un sogno
Tra gli spettri della morte, e i vivi… Non resta altro che cenere. Un dolce inganno, un’umbratile dolore che si staglia inesorabilmente sull’immagine bloccata sullo sfondo di un cellulare, salvato dal crollo di ogni speranza. Il cantiere vuoto… Le macerie, vuote, e solo quel cellulare. Perché la morte concesse tanto solo per gioco? Non lo sappiamo, ma ascoltiamo la storia dei due amanti il cui legame non poteva esistere, eppure apparve, maledetto e soave. Come l’ultimo canto di un cigno.
-“Ti va se ci vediamo di tanto in tanto?”
Una domanda dolce, espressa con quei grandi occhi verdi — di un verde non puro e profondo, ma ancora più bello: sfumato e enigmatico, che si spaesa e finisce in un marrone avvolgente verso i lati… Come magma caldo e magnetico: appassionato — puntati nei suoi, le gote leggermente arrossate, e la bocca che, appena dopo la domanda, tremava. I suoi capelli erano così attraenti in quell’istante. Avrebbe voluto dirle immediatamente sì, ma non capiva ancora abbastanza quanta profonda fosse l’ammirazione, l’amore per quella ragazza.
-“Sì, certo! Nessun problema!”
Aveva risposto sciocco, davanti a quello sguardo emblematico, che richiedeva solo un bacio. La ragazza piena di gioia:
-“B-Bene! Ecco… Ci sentiamo allora, ricordati! Eh!”
Poi fuggiva via, leggera, sentendo già il profumo dell’amore, appena allontanato da quello della città, in cui correva danzando. Si chiedeva se mai avrebbe davvero stretto quel ragazzo, se mai avrebbero dormito insieme, uno accanto all’altra in un abbraccio tenero e caldo dei loro cuori. Quasi piangeva dalla gioia: apposta aveva fatto quel lungo viaggio, apposta per vederlo, per dirgli quello. Con il suo sguardo da giovane cerbiatta lo aveva incantato, uno sguardo dirompente per la sua apertura, la sua fortissima innocenza, che come un’onda calda emanava da quel viso. Un forte vento forse aveva colpito troppo forte il ragazzo, che, inconsapevole, non aveva saputo vederlo: non si crede mai, di primo acchitto quando si vede la bellezza eterna e perfetta di fronte a noi. E in quel viso, in quello sguardo, c’era tutta.
Alcuni messaggi, alcuni appuntamenti intercorsero alla loro tremenda separazione… Lei andava sempre a trovarlo, e si stendeva vicino a lui… nella sua stanza, mentre lui ancora non capiva, la stringeva forte, ma credeva ancora di aver tra le braccia un’amica… Fatalmente sarebbe stato meglio così.
-“Sai, questa notte ho fatto un sogno! Eravamo noi due, insime, a New York! E passeggiavamo così vicini, io stretta al tuo braccio tra quelle frecce enormi che indicano il cielo: i palazzi della città si aprivano solo per noi, e le stelle quasi piovevano giù, per rispondere alla chiamata di quei giganti!… Ma noi non saremmo mai caduti… Senti! Che ne diresti? Ti andrebbe un giorno di portarmici, sarebbe meraviglioso!”
-“Certo! Anche io amo quella città, e poi… Sento che questo calore mi piace. Sì, ti porterò a New York”
Le promesse tra innamorati! Quale dolce spettacolo al cuore, che si commuove, si innalza tanto in alto quanto vana può essere la loro dolcezza. Ma è bello così, si promette, si progetta, si tessono sogni comuni, che sembra non potranno mai tramontare senza una realizzazione almeno parziale, senza che almeno i due, stretti nell’alto intreccio delle loro anime, non abbiano guardato, dalle altezze dell’Empire State Building l’immensità dell’universo, abbracciati. Amanti.
Ancora più spesso si vedevano, e lei sempre più amabile lo avvolgeva tra le sue braccia, tra il suo profumo, la morbidezza dei suoi capelli arrossati e ancora, quel suo profumo, così solo suo. Anche lui la stringeva forte e iniziava a capire di amarla davvero. Presero un gelato insieme, e passeggiarono un po’ quel giorno. Andavano nel loro solito parco e si sedevano insieme. Dopo un po’di pensare comune, lei disse che era un po’ stanca, e andarono a casa sua.
Sdraiati sul suo letto, come sempre, si guardavano negli occhi, in silenzio. Gli capitava a volte… E l’aria era così leggermente tesa, che avremmo potuto sentire noi stessi il magnetismo che i loro occhi nutrivano, l’amore che si formava incandescente e sicuro: la speranza di vederlo finalmente fiorire. Anche per noi.
“-Sai, devo parlarti… Dopo tanto tempo insieme credo di… aver un… Senti: tra tutte le ragazze del mondo, io credo di non aver mai visto e provato nulla di più bello, di quello che sento per te, e sì, sei anche la più bella ragazza che io abbia mai… Amato … “Che ne diresti, se ci vedessimo” magari più spesso, insieme? Orami per me il tuo abbraccio, il tuo sguardo, è una droga, non posso farne a meno, e vorrei dire, insieme a te “per sempre”… Quando ci separiamo sento ancora il contatto, la stretta dei nostri abbracci e non voglio più dover, tornando a casa, di notte, con il canto degli uccelli e già il profumo del pane appena sfornato, pensare che avrei potuto darti un ultimo abbraccio o un ultimo bacio prima di partire, e così all’infinito, perché mai avrei voglia di lasciarti”
La ragazza a questo punto tenue, sfiorò la sua bocca con la sua… Si baciarono teneramente, in una dolce stretta, che noi spettatori non possiamo che sperare sia definitiva, chiusa per sempre in un cerchio, tanto è affascinante e dolce, fatalmente dolce.
Ma intanto la ragazza piangeva… Singhiozzava forte…
-“perché piangi? Cosa c’è che non va?”
Aveva chiesto piano, come se la parola, l’aria e lei fossero connessi da un unico liscissimo piano
-“Vorrei davvero tanto amarti e stare con te… Anzi, proprio per questo sono tornata. Ma non posso… c’è un problema… perché io… Io sono morta.”
Scoppiò ancora più in lacrime stringendo il suo amante e cercando di trattenerlo più che poteva. Era più fredda già, orami… E, preso per mano il ragazzo, lo portò per la città. Era notte è un gelido vento soffiava lieve. Raggiunsero un cantiere, alcuni lavoratori affaccendati, con il loro via vai facevano appena da contorno. Anche la polizia c’era, e la luce della sirena serpeggiava sui loro volti.
-“Cosa… Perché siamo qui? Non posso crederci, insomma, io… Ti stringevo no? Tu eri così dolce, così… Calda… No, aspetta”
-“Vieni con me, guarda qui”
Con le lacrime agli occhi come pioggia gelida, quasi grandine glaciale, la ragazza lo condusse accanto alla zona in cui c’era stato un crollo. A terra, vicino alle macerie, l’unica cosa che restava, con il vetro leggermente incrinato, era un telefono cellulare. Lui lo prese. Pigiò un pulsante e lo schermo, debolmente si illuminò. Lo sfondo era una foto di loro due, abbracciati insieme sul suo letto, come amavano fare spesso… Con quella crepa ed i colori impolverati… Perché?
Gli addetti e la polizia lo fecero sgomberare. Nascose gelosamente il suo reperto e si accorse amaramente che la ragazza era sparita… Ma lo sapeva già in fondo. Quando aveva visto il telefono tutto si era come immobilizzato. Aveva sentito un soffio e nell’attraversare lo spazio che lo separava da quella orribile riesumazione, il silenzio più totale lo aveva avvolto. In un puro attraversamento di spazio lo aveva raccolto, e poi, gelido aveva scoperto l’immagine. Tornò a casa solo quella notte, stravolto. Lei era tornata apposta dal regno dei morti per farsi amare, per dichiararsi a lui e stringerlo nell’attimo più alto e commuovente di ogni storia d’amore.
La morte… L’aveva sentita, e forse anche vista mentre se la riportava via, concluso il patto.
Si accoccolò sul suo letto, stringendo il cuscino, agghiacciato dalla crudeltà di quel destino che lo aveva giocato… Perché la morte aveva fatto tutto questo? Nessuna riposta… Solo freddo e silenzio.
Il peggio era che sentiva che mai, mai nessun’altra ragazza avrebbe amato come lei, e mai, mai nessun’altra avrebbe stretto in quel modo, nessun’altra storia d’amore possibile. La sterilità di un cuore causata da un folle desiderio e dal perturbante ghigno che dà l’assenso della morte, il suo assenso alla tragedia.
Non c’è altro che il vuoto in questa storia. Lui aveva il suo telefono, con quell’immagine fissa sullo schermo ormai inutile… Spesso la osservava, poi sempre meno… Ma la sua testa era come quello schermo: bloccata su di lei.
La sua vita finirà in un manicomio… Mentre carezzava il vuoto, la forma di lei… Chissà se la vedeva ancora?
Ieri notte, 4:45… Un sogno così dolcemente amaro… Spero presto di aver tempo per costruire un testo adattabile a spettacolo…