Il tempo e il lavoro e i vari disastri di chi viaggia guardando solo in su mi stanno occupando molto ultimamente. Ho preparato alcuni pezzi, ma non mi convincono mai. Sono in un momento di scelta e perciò sarò poco presente, ma spero presto di tornare più attivo e di poter leggere anche io i lavori indietro che avete pubblicato.
Grazie a chi continua a seguirmi, abbiate un cammino splendente!
Noi uomini siamo sempre sulla via del ritorno a casa, la via del ricordo, la via della ricerca di qualcosa di già vissuto… o forse di quello che vorremmo vivere, e abbiamo appreso nei nostri sogni, nel nostro carattere. Per questo è proprio dell’uomo il dimorare, come sentenziava Eraclito, ma è davvero questo primo senso che si deve dare al dimorare?
Sì, noi dimoriamo, il che presuppone una dimora. Un luogo in cui stiamo bene, e in cui tornare dopo le battaglie della giornata. A volte si deve ammettere la sconfitta, a volte festeggiare la vittoria, ma nella dimora, si è sempre nel posto giusto. Il posto giusto perché è quello che più intimamente potremmo chiamare “mio” non perché ci siamo solo noi e la dimora, ma perché ci siamo noi, la dimora, e lei. Mio qui non è un possessivo, ma indica quel mio che si pronuncia quando, guardandosi negli occhi, e sentendo tutto il vento del mondo, che soffia appassionatamente sulla vela della nostra anima, infine si dice: “mio”. Tutto quello che si ama riflesso in quella piccola parola: oceani, imprese, sabbie, voli, e l’apprezzamento che siamo in grado di provare, ciò che davvero amiamo, e allora, sentiamo come nostro. Non ci appartiene come una cosa, ma come la nostra stessa anima: fa parte della nostra natura essere lì, noi e in quel momento, a cospetto di quegli occhi che tanto riflettono lo stesso sentimento, e così creano una corrente meravigliosa nel labile spazio tra i due volti. La pupilla si spalanca e la dimora di ciascuno si apre, estende il suo spazio all’esterno e noi non dimoriamo più solo in noi stessi, ma iniziamo a dimorare davvero nel mondo intero.
Un minuscolo specchio colorato, se riflette davvero, basta a dar vita a tutto questo. Per dimorare si deve avere una dimora, e per dimorare nel mondo serve aver già costruito. Ciascuno di noi è il demiurgo di se stesso, l’architetto immanente che lavora tenendo d’occhio l’ambiente circostante, la bellezza, e la persona che ha da vivere: noi stessi, nella nostra dimora.
Ma il fatto di essere sulla via del ritorno ha sempre la sua complicazione: infatti, la dimora, non è come una casa costruita in mattoni e pietra: fissa, stabile. No, la nostra dimora, dobbiamo ricordarlo, siamo noi. Noi viandanti. Perciò essa deve sempre convivere con l’ambiente che ci circonda, e con i nostri momenti diversi. La dimora cammina insieme a noi, è sempre in noi, è il letto del fiume che siamo: ci contiene curandoci dalla dispersione, ma insieme segue le nostre turbolenze, le nostre amenità. Insieme possiamo scrosciare amichevolmente. Eppure, se la dimora diventa greve, — perché noi ci fissiamo su un certo corso, e non sappiamo seguire il ciclo dell’acqua fino al mare, o perché l’ambiente attorno a noi viene ignorato, e la dimora finisce per essere un aberrazione fuori dal tempo, fuori dallo stile— allora non c’è più vita. La dimora diventa condanna, spazio sempre costretto a incarnarsi in ogni esperienza diversa: cerchiamo in questo senso di tornare a casa, come se la casa fosse sempre lo stesso punto che si attraversa perdendosi in un bosco e girando in tondo.
Il flusso magnifico nello specchio degli occhi si interrompe, e ricercando sempre quella solita storia, si trasforma in appannato occhio di pesce fuor d’acqua che non riflette nulla se non l’assenza di luminosità.
Lei non è lei, questo va inserito nei dati del progetto, e anche: questo fatto che cerco, perché lo cerco? È giusto guardare sempre nella stessa direzione? No, la dimora ha ben più di una sola finestra, da cui stare al mondo.
Perciò si deve fare attenzione a tornare sempre a casa, perché se lo si fa da cittadini, questa sarà la nostra condanna, ma se lo si fa da viandanti, che hanno tante case, quanto vario è il mondo, — e talvolta certo visitano un posto già visto prima, ma con gli occhi sempre pronti a scoprire il nuovo, senza una particolare cocciutaggine a veder sempre lo stesso — allora sì, possiamo dire “Ethos antropoi daimon”
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