L’infinito metauniverso 

Un pezzo problematico, lo confesso, che apre molte questioni, senza risolverle ancora tutte. Ma proprio per questo si offre allo sguardo del viandante, affinché raccolga una moneta e ne lasci un’altra sulla strada.

Il nostro ingresso nella storia si può chiudere in diversi modi. Una volta che siamo stati gettati <nel mondo>, si può diventare il suono di una porta a molla che sbatte da sola, quel suono al quale tutti si voltano, ma non vedono nulla: la porta va avanti e indietro ma chi o cosa sia uscito non si sa: è oltre la soglia e da lì non può tornare. Solo pochi erano girati in quella direzione e hanno visto il loro amico uscire, ma gli altri sentiranno solo un rumore… Solo? No, lo sentiranno davvero, ma in modo diverso dai primi. Un altro modo per partirsene è costruire un’uscita diversa: lo hanno fatto alcuni grandi conquistatori, ma al contrario di come io dico: l’arco di trionfo, l’ingresso vittorioso nella città che ha avuto la fortuna di una grande impresa o di una grande conquista. No! Questo è da ridere! Gli archi di trionfo servono solo per uscire! E si deve costruirli in vita, infatti un monumento non si fa da solo, potrebbe passare inosservato per anni, e poi essere riscoperto dai bravi archeologi che passeggiano sulla linea del sole che va, va verso il basso. Il più grande bene per l’uomo è non sbattere nessuna porta, ma lasciare tracce, passare oltre ogni possibile porta lasciando dei segni: le pile di sassi che i viandanti costruiscono in montagna. Infatti si deve lasciare lo spazio libero, al massimo un percorso segnato, meglio se interrotto e ammiccante in una direzione potenzialmente infinita, non usare porte a specchio costruite ad oc per ingannare le allodole. Solo così ognuno potrà osservare le diverse strade tracciate, strade vere, percorse a fatica e con grande impegno, con la meta stampata negli occhi: quei grandi eroi che tagliano la folla al mattino con la luce in viso, anche quando piove, con la loro valigia ed il loro ombrello — un contenitore di viaggi, di ricordi ed esperienze, sempre pronto ad aiutarci e in cui cullare il nostro passo, e il simbolo del tempo, del clima in cui siamo immersi, monito e arma insieme — . Questo affinchè guardandosi in giro ogni uomo possa scegliere e scegliere bene, senza imbattersi in vicoli ciechi. E l’ultima traccia da lasciare è un monumento: un arco, che apre uno spazio aperto, ma indica inequivocabile una strada, un’uscita — forse un’entrata! — che indica un ideale, uno scopo raggiunto, un’invito. Non è un’ara o un altare, ma è proprio uno spazio vuoto, — potrebbe essere di rami intrecciati, lasciamo ad altri il nobile marmo, — per non entrare e uscire dalla storia come bestiame, soggetti ad un triste statuto che non abbiamo saputo affrontare e in qualche modo modificare, ma nemmeno prendere in consapevolezza… C’è un’enorme comunità metaspaziale e metastorica che ha tracciato percorsi ed archi, che si è opposta alla tirannia, al dolore, al male e ha lasciato grandi monumenti, meravigliosi e ferventi. E ci invitano a proseguire su questa strada, a liberare quello che noi abbiamo visto e che loro a loro volta, nella loro epoca, avevano potuto vedere: tanti punti in un cielo blu scuro circondati da tempi e spazi intersecati. Ma siamo noi a vedere quello che sta a noi vedere: attorno fisicamente gli altri vedono ben diverso, e questa è tutta altra potenza! Possibilità di vedere, di vedersi e di, in un certo senso, avere orizzonti amplissimi, di tanti e tanti gradi, che vanno oltre ogni distanza e ogni tempo. Sembra una cosa fantastica allora essere in vita, altro che nessuna gioia possibile, altro che dolore! Polvere, colori, lampi e luci che si mescolano in uno spettacolo illimitato, melodie di ogni tipo componibili… Parole, frasi, l’infinito è proprio qui! Il punto sta nel non essere schiavi della contingenza: fissare obiettivi, percorrerli fino in fondo con il massimo rispetto per sè e chi si ha attorno, integrità e capacità di “gettarsi sulla destra il mantello come uomo libero”. Ma insieme immaginare, sfruttare la forza del desiderio ma non lasciarsene dominare, così da non renderlo puro strumento di calcolo e di condizionamento finale. Esso dice il vero, ma diverso è il volere selvaggio di un animale e il desiderare accorto e onesto di un uomo, che prima di tutto desidera di essere soddisfatto davvero, non sviato in perversioni e attimi comprati a caro prezzo morale. Per quanto possa esistere anche questo. Infatti siamo liberi davvero: possiamo scegliere di percorrere un percorso, o di entrare in una città già oppressa ed opprimente da cui uscire sbattendo una porta. Città, contro percorsi appena segnati, abbozzati amichevolmente e con fiducia in sè, così da averla nel proprio compagno di viaggio, anche se calpesterà la nostra stessa orma cento anni dopo: è egualmente nostro compagno, così come lo sono quelli che hanno riempito di piccoli puntelli di luce la segnavia che noi percorriamo, e possiamo ben deviare, e con lo stesso spirito tracciare nuovi segni. Fino a costruire il nostro personale arco di trionfo. Entrambi i due modi di essere appartengono all’uomo, ne ha diritto, poiché è stato gettato nel mondo, non ha avuto scelta, perciò può disporsi ormai atterrato come meglio lo aggrada… Anche se ci sono tante indicazioni che trascendono il tempo e lo spazio e cantano consigli valorosi. Gli altri, gli altri sono parte del tutto, pure noi. Infatti da grandi città escono grandi conquistatori e dalle strade più selvagge emergono grandi città, talvolta. La differenza sta nel fatto che in città si vive tra i propri simili, schiacciati e incanalati; nei percorsi naturali ci sono altre priorità, ma ciò non significa il disinteresse, anzi ce n’è il massimo, solo non emerge con una affettata e inquietante forza… Infatti anche lì ci sono poi certi compagni di viaggio fissi: le stelle nel nostro orizzonte: quella rete nella rete che si estende e parte da noi, noi parte del nostro tempo, del nostro spazio, con ciascuno un’universo aspaziale e atemporale attorno. E in questa infinita complessità emerge con incredibile potenza la diseguaglianza! La potenza stessa, ciò che permette la giustizia, che induce ad un criterio per giudicare, e che ci spinge a cercare un orizzonte comune su cui costruire la convivenza dei contrari: una mescolanza ancora, che unisce ogni contrario al suo contrario. Tutto ciò si origina però dalla differenza, senza di essa non c’è nient’altro che l’uguale sempre a se stesso. La morte dell’arte, della vita, della libertà. È pericoloso questo potere e la storia lo ha ben mostrato eccome, infatti la differenza esiste di per sè, ma quello che si deve fare nella realtà, è costruire il giusto criterio per il darsi di una differenza tutta umana che non danneggi nessuno.

Post-scritto

cosa vuol dire allora costruire un’arco di trionfo? Significa concludere la propria strada con un segno tangibile di cosa essa ha significato per noi, di cosa può produrre se seguita con la giusta costanza e fiducia. Ma insieme non obbliga, anzi, invita l’occhio a guardare oltre, sotto alla volta, la strada che è ancora aperta. L’arco è come il bastone che attizza il fuoco, lo stimola ad accendersi ancora di una differente e sempre nuova potenza. Ci sono molti archi da osservare, sulle nostre strade ne incontreremo di diversi, e sulla base della loro suggestione costruiremo a nostra volta una rete di movimento disperso, che supera ogni barriera e giunge dovunque esso vada. E lì troveremo altri archi, che ci incoraggiano sulla giusta intuizione, o lo spazio vuoto, da colonizzare con il piede fermo, poiché alle spalle abbiamo tanti ad acclamare la prosecuzione del loro percorso che ci daranno la forza che possono con le loro aspirazioni.

Il potere della storia sta in questo, la grandezza del soggetto sta nel vedere e percorrere questo immane metauniverso con la giusta luce negli occhi. E quando questa di spegnerà, se saremo ancora in vita consideriamoci maledetti! Se saremo morti, sapremo, attraversato quell’ultimo squarcio, voltandoci indietro, se solo una porta a molla starà sbattendo, o se tutto un mondo si sarà compiuto, affinché la natura continui a sprigionare la sua potenza in costante trasformazione e movimento. 

Δημιουργός

Se io dico “la rosa era blu…” già ho costruito, ho plasmato una storia. Proprio come quell’artigiano, quel “dio” facitore, il demiurgo (Δημιουργός)… “Egli persuase la necessità a condurre verso il proprio meglio la maggior parte delle cose”. La maggior parte delle cose… Non tutte, così Platone spiega il male sulla terra. C’è qualcosa per i greci che è più fondamentale, persino degli dei (Δίος) quelli veri questa volta, come Zeus (Ζέυς). È la necessità, (Άνάγκη) il fato! E cosa esisteva prima dell’opera del Demiurgo, ovvero l’ordinamento della realtà? C’erano lo spazio: la sede del divenire; le idee, somme, invisibili agli occhi del corpo e proprie a quelli dell’anima, eterne ed immutabili; e gli eventi casuali. Il Demiurgo guardò alle idee nel suo lavoro, e non avrebbe potuto fare altrimenti. Dato “che era buono e voleva che tutto fosse simile a lui” creò prima l’anima dell’universo e poi l’universo fisico stesso, così che potesse essere governato secondo ragione. Le idee che sono implicate e compongono l’anima dell’universo sono quelle di uguaglianza differenza ed esistenza. Il Demiurgo per costruire tale anima si ispirò all’idea di creatura vivente, che conteneva in sè ogni genere ed ogni specie di vivente presente sulla terra. Questo mito di una straordinaria bellezza può mostrare quella naturale tendenza dell’uomo a cercare una spiegazione per ogni fenomeno, e soprattutto per il male. “Qual è la causa dell’essere due? È la partecipazione alla dualità” nulla di più semplice e sincero. Ogni cosa è un riflesso della sua idea corrispondente nello spazio. Ma le cose sensibili “sono copie imperfette dell’idea: pur aspirandogli le restano al di sotto”. È forse errato allora volgersi con tutta l’anima alle realtà ideali? Al tentativo di superare la necessità del fato? È forse scorretto vivere da eroi piuttosto che da copie manchevoli? Ciò che so è che questa necessità, questa tensione verso la giustizia, il bene, il bello… “E tutte quelle realtà a cui noi imprimiamo il sigillo “in sè” (καθ’αυτό)” dovrebbe venire tardi nel formarsi dell’umanità, ma in fondo non così tardi, già nel V sec a.C era emersa… E oggi? Noi cosa guardiamo? Forse sarebbe più corretto pensare cosa è bene, o lecito, se vogliamo, guardare. Se guardiamo l’idea saremo bollati come idealisti, sognatori, pazzi… —oh,— se guarderemo la realtà dovremo fare molta attenzione però: ci sono almeno tante realtà diverse quanti sono le nazioni che si affacciano sui diversi oceani, ci sono tante realtà quante i “comodi” che esistono. Ma l’idea… Forse dovremmo rivolgerci nuovamente alle idee e riordinare il mondo convincendo ancora la necessità a disporre la maggior parte delle cose nel loro modo migliore… Non parliamo di utopia però, ho detto la maggior parte, non certo tutte! Questo lo riconosco, è impossibile… (chi parla? Io sono ancora nel —oh,—) 

Nostalgia per un ritardo 

Rivogliamo i miti. La nostra storia, lentamente, in modo subdolo, senza che ce ne accorgessimo, ci ha privato del potere della suggestione. Dico quella magia che ci farebbe credere davvero, entrando in un bosco, di poter incontrare creature strane e soprannaturali, o meglio, naturali davvero. Ci manca la fantasia e la acutezza per intraprendere una ricerca sui principi del mondo, dell’anima, del tempo… Non si pensa più agli spiriti che dominano le cose e le rendono vive, nè alle enormi porte di bronzo che segnano il confine con l’ignoto: le stesse porte da cui passano il giorno e la notte, mai fermandosi contemporaneamente nello stesso altrove… Ci mancano gli eroi e le epiche battaglie, gli esempi dei grandi uomini virtuosi del passato, il valore della legge, parola che incarna in sè l’aspirazione all’ordine naturale del cosmo… Ci manca la riflessione sul destino dell’anima dopo la morte, quella sul suo percorso, guidata dal suo demone verso le pianure del giudizio e poi… … Dove è finita questa dimensione? La scienza in parte ci ha privati di un mondo magico e meraviglioso, in parte ci ha reso padroni del mondo… Ma è davvero questo un vantaggio? Non dico che la scienza e il progresso siano male, ma si dovrebbe osservare con più attenzione il loro fine. La politica si è trasformata in un fantasma che barcolla tra concetti che gli sono ormai estranei e cerca chissà che cosa, già… Lo stato oggi vuole davvero il bene dei suoi cittadini? O forse non è solo una macchina inquietante ripiena di dissidi e contraddizioni? Ma lo è sempre stato, solo, un tempo aveva un più sano rispetto per l’etica e per la tradizione, per la parola e per il piccolo. Ma oggi si deve pensare in grande! Ma come lo si può fare con una mente acerba, che non sa e non cerca di scontrarsi con il mondo, che trafuga informazioni da ogni dove invece di riflettere, di immaginare, di provare a costruire qualcosa di buono? Eh, ma è la verità, la verità, la verità! Cosa significa questa parola per chi, come un cane spaventato da un orso più grande e più forte di lui, non sa fare altro che appigliarsi alla massificazione degli scarti del sapere, senza invece percorrere le terre più selvagge — il vero territorio degli orsi, non le città soffocanti in cui i cani sono stati tratti con l’inganno, non erano animali liberi un tempo? E il miraggio degli animali domestici, l’illusione che siano tali perché è così da sempre, cosa potrebbero dire? Alcuni però sono felici — e vedere con i suoi occhi la vita, aspirarla e cantarla dall’alto di una rupe insieme ai suoi compagni, come lui posti in questa landa fresca e invitante. Vedere un fenomeno e indagarlo uno insieme con l’altro, inventare storie, divinitá ed esseri mitologici… E poi scoprire altri miti, altre tribù, restarne sorpresi, parlare con loro e trovare la foce per un nuovo sbocco sul mare dell’eccellenza umana: l’invenzione fantastica. Abbiamo perso questa diemensione del mito, perso il pudore naturale che spinge a quella tanto proclamata religione… Perso il valore della vita, messa a rischio ogni giorno per la sopravvivenza, perso la felicità di esser vivi nel proprio gruppo, nella propria terra… Queste cose io le ho respirate nei racconti antichi, nei documentari sugli animali e su popolazioni sperdute tra alti monti o in verdi foreste, l’ho vista guardando panorami meravigliosi, e mi chiedo se davvero siamo in un’epoca felice, o piuttosto se non sia questo il tempo contrario a quello di Crono, in cui gli dei tenevano il sacro timone del mondo: gli uomini nascevano dalla terra e ringiovanivano fino a tornare in essa. Ogni cosa nasceva spontaneamente e non c’era bisogno di forzarne la produzione, gli animali erano mansueti e pronti a comunicare tra loro, anche tra razze completamente diverse, e circolavano grandi storie e grandi ricerche, imprese e sogni… Non si può più scoprire l’America, non si può più immaginare come si sia creato un monte o un fiume, nemmeno inventare risposte che risvegliano quel senso autentico per il sacro e il misterioso che tanto accattivano l’uomo in ripspota a certi fenomeni naturali, che nemmeno poi, più tanto spesso vediamo. 
Ma per fortuna si può continuare a sognare e ad immaginare, nessuno può toglierci il dialogo che abbiamo con la nostra mente, nessuno può toglierci la nostra scintilla nella vista, il cozzare tra realtà e idea che dà luogo all’intuizione magnifica del reale che il poeta, l’artista di ogni arte, e la musica sanno consegnarci. 
Ci sarà un rinnovamento? O forse sarò destinato a perire con la mia voce? … Ecco, già stampata su carta geme, ma io sono qui, e finché sarò vivo continuerò a proteggerti. 
L’innocenza e la fiducia sono i nostri più grandi beni, e sin da piccoli ci accompagnano. Solleviamoli dalla visione empia dell’indolenza e recuperiamo il controllo della nostra terra.

Cosmologia e società 00:01

17/04/2016Eccoci qua, sull’orlo del cielo appannato dalle nuvole appena rosate. Uno spazio che non appartiene a nessuno, pacificamente attraversato dagli uccelli del cielo. È sempre lo stesso eppure varia, inesorabile, ogni giorno con “un nuovo sole” quel sole che viaggia e ammicca alla nostra rotazione. Da contorno alcune stelle fisse ridono della loro distanza, e lentamente, quanto il loro segnale intermittente, vanno spegnendosi. È curioso come una stella possa scomparire per un banale effetto ottico: una meteora passa in prospettiva davanti alla stella, e noi da qui, per giorni, mesi, o forse anni non vediamo più la sua luce. Ma sarà scomparsa per sempre o ritornerà a calmare la notte con quella sua luce? E lo sapremo mai noi, con i soli nostri occhi? Hahahah la domanda di chi se ne sta giorno e notte a fissare il cielo, speranza, incertezza, contingenza ed ingiustizia. Il campo di battaglia di chi si scontra ogni giorno con la realtà: il campo di battaglia dell’uomo. Nessuno può esser mai neutrale, chi può prevedere ogni cosa? Anche la migliore delle sibille ad un certo punto ci indicherebbe la via di casa con una carezza enigmatica. La partenza dalla dimora, il trovarsi da soli in equilibrio su questo geoide… Atlante ciascuno del suo piccolo mondo, libero però di abbandonarlo e raccoglierne un altro. “Cade! Collassa! Aiuto, perché te ne vai? Dov’è la tua luce?” Ci sono anche su di noi tanti abitanti e pure noi abitiamo… Ripieni di contraddizioni gli uomini galoppano sulla terra ad un ritmo folle che li conduce dove già sanno, la via non è però segnata, e infatti è facile sbagliare e finire errando chissà dove sconvolgendo interi universi, e sopprimendone altri, attraversandone però di nuovi e molti, variopinti — di certo qualcuno deve essere bello…— . In questo caotico girovagare il desiderio più auspicabile e bruciante è quello di essere ben appaiati — come i cavalli ad una nobile pariglia, governata in modo armonioso e dolce dall’amore — e trovare un accogliente branco. La contraddizione sta proprio in questo girovagare: aspirazione di stabilità e insieme volontà di costruire, demolire e attraversare universi diversi. Più si conosce il proprio sè, più si può però stare fermi, si può costruire un universo sempre migliore ma è tutta una tragedia ricca di errori e di addii… Perciò credo che l’essere più coraggioso sulla terra sia l’uomo che viaggia per trovare se stesso, uomo in continua lotta sempre stralunato e quasi disorientato a casa propria, ma che pian piano trova rotte che per sempre si inscriveranno nel suo istinto da uccello migratore: legami, intrecci che perdurano ad ogni dissoluzione fino a giungere all’equilibrio… Finalmente punti fissi nel cielo con cui orientarsi… “È questa la reale condizione dell’uno?” Io non lo so, mi chiedo piuttosto: “Questa condizione dell’uno è giusta? È buona? Si deve insieme sapersi orientare ed essere riferimento, infatti anche se a noi pare che il sole giri intorno alla terra, per lui siamo noi ciò che giriamo in tondo. 

Voci, divinitá e metalli preziosi 

Non tutti sono come noi, per nulla anzi. Almeno se siamo in grado di pronunciare questa frase, perché non tutti possono pronunciarla nel suo senso più completo. E non significa che sbaglino. No, solo, può darsi che siano in una prospettiva completamente diversa dalla nostra, e non si può dire che uno che guardi in uno scenario marino dall’alto in basso un faro, sbagli, rispetto a chi nella stessa condizione guarda dal basso in alto lo stesso faro. Perciò non si può parlare di errore nel modo di vivere, ognuno sceglie il suo. Piuttosto si può parlare di modi migliori e modi peggiori, rispetto alla nostra prospettiva. Innanzitutto, però, va compresa la nostra prospettiva stessa… Infatti come possiamo parlare senza avere la terra sotto ai piedi? E non è semplice comprendere la nostra prospettiva, almeno, non sempre è semplice. Questo perché siamo strumenti a più voci, ci sono più corde in noi, e non siamo nemmeno sicuri di essere proprio noi quelli a suonare. Da qui possiamo cercare di capire almeno cosa le diverse corde in noi vogliono dirci. La più immediata e spontanea è quella dell’emozione, del pre-sentire: la reazione immediata che accompagna la visione o l’ascolto di qualcosa — in questo senso la sensazione è una dea benefica e che risponde al rito — un’altra voce è quella della prima espressione “razionale”, la prima risposta che la mente, con un qualche fondamento generale e assunto, ci spinge a pronunciare. Una prima risposta che può anche poi risultare errata, e veniamo infatti alla terza corda: una via completamente razionale e riflessa, — la dea terribile e oscura, che tutto dice ma in modo enigmatico rispetto all’accadere, sarà buono o cattivo l’auspicio? Dipende dalla riflessione, dai casi, dallo scontro col reale — che pensa, ascolta, dice in un qualche modo e riconsidera, poi si ferma e poi riprende… È la condizione che meno infallibilmente ci conduce alla realtà del nostro esser tranquilli. Questa è una mia immaginazione, eppure non si può star calmi, finché non si è dato accordo ed equilibrio tra almeno queste tre voci… Ma se due o addirittura tre sono in contrasto, che fare? Ad esempio la voce della ragione può, dopo varie considerazioni, andar ad affermare qualcosa, che immediatamente è in contrasto con ciò che la prima emozione ci aveva suggerito, e allora non sappiamo che fare: siamo sempre noi a dire sì e no insieme, ma chi dovremmo scegliere tra le due? Certo, ascoltare sempre l’emozione non è corretto, poiché ci porta a fare anche atti contrari alle leggi e alla consuetudine minima della società, ma fuori da questo sostrato che dobbiamo pur accettare, e non in questo modo, ma più per una certa scelta etica sul rispetto e la tolleranza, essa può darci la risposta che cerchiamo: fare ciò che sinceramente ci sentiamo di fare. D’altro canto la ragione, con il suo macchinare, può lavorare la materia dei fatti e ottenere talvolta robaccia, altre volte grandi soluzioni. Anche se, è da ammettere, che le più grandi intuizioni non da essa provengono, ma dall’antro oscuro del sè profondo — la scostante ricerca e la meraviglia di questo percorso verso il cuore di sè, non è per nulla facile, o immediata, anzi… Eppure tanto vorrei raggiungere e vedere, capire meglio questo profondo sè e seguirlo come un dio… Ma si deve saper interpretare i suoi segni, magiche voci sussurrate che emergono all’orecchio dei desti, che se non sono iniziati non possono capirle con chiarezza e cadono nella disperazione, ma, un non iniziato che non sa, è molto più cieco di chi intravede la luce e ne è abbagliato, eppure soffre meno — la sede della nostra dimora. Paradossale è allora il non poter tornare a casa, quando siamo proprio sulla soglia della nostra dimora. Dall’altro lato c’è la voce illuminata della ragione, che non sempre ci porta ad esser felici, ma spesso non riesce a darci una risposta pienamente soddisfacente. E allora si deve rimuginare, dialogare molto e molto, “fino a raggiungere qualcosa di sufficiente”. A volte ci vuole poco, ma nemmeno così potremmo fronteggiare alcuni temi particolarmente emotivi che accarezzano la nostra vita. Sembra che la strada corretta sia allora quella di tendere l’orecchio e ascoltare le due divinità insieme: il loro canto è sempre in noi, e siamo proprio noi a farne da sede, perciò abbiamo su di esso almeno qualche diritto, come contorno-padroni possiamo unire le due voci in duetto invece che lasciarle in uno spazio scomposto e indefinito. Possiamo allora raccoglierci in noi stessi e preparare una stanza ampia e pulita, in cui le due cantanti possano dialogare e dar spettacolo assieme, così da avere un solo teatro pieno, anziché due non vuoti. A questo punto c’è da chiedersi se tale mediazione è possibile: io credo di sì, in fondo ci sono certe situazioni in cui siamo in pace con noi stessi, e ci sentiamo sicuri, al nostro posto. Ecco, dobbiamo allora cercare di prolungare il più possibile nella nostra vita queste situaizoni, trasformarle in tutto, prolungare all’illimitato il concerto: ciò significa saper intrecciare i rapporti e le proposte che abbiamo di fronte in modo conforme al nostro suono. E allontanarci dalle stonature di qualunque natura esse siano. In questo contesto la verità diventa per noi ciò che effettivamente ci dona felicità, tranquillità e sicurezza. Ogni epoca dovrebbe dare questo ai suoi uomini, ma un uomo fuori dal suo tempo, che può fare? Deve crearsi attorno un altro tempo, vagare di luogo in luogo, piuttosto che finire straziato. E non è un vagare infinito questo vagare, no, infatti il mondo è così ricco che noi non possiamo nemmeno immaginare l’apertura che potrebbe attenderci dietro l’angolo. Perciò nel caso in cui non abbiamo ancora il nostro luogo si deve cercarlo. E non rinchiudersi in una gabbia, anche se ci sembra una gabbia dorata, ma se è maledetta… Che ce ne facciamo dell’oro? A me piace l’argento!   
[Non a caso l’argento e non è il II a cui io mi riferisco, ma ad un metallo più puro, vicino al bianco e che meno tradizionalmente inganna, infatti, non è oro tutto ciò che luccica, ma l’argento ha un suo peculiare modo di risplendere alla luce del sole] 

II discorso

Non avere voce in capitolo

Amarezza. Un’amarezza di quelle che ti colorano gli occhi di sale, acqua che increspa appena la loro superficie senza mai scendere… La rottura di una fede, l’allontanamento da un luogo, dalla dimora… Dove siamo nati noi? Perché è così crudele questo tempo votato al terrore ed al sopraffare? Forse è sempre stato così nella storia, ma solo vivendola davvero si può sentire quanto faccia male: siamo costretti a temere di uscire di casa, costretti a temere che il nostro vicino non voglia farci che del male. Chi, chi ci costringe a questo? Perché? Cos’è il terribile peso che schiaccia in questi anni l’uomo fuori dalla terra, dentro il suo alter-ego? Eppure guardandosi attorno esiste qualcosa di buono, ma da dove viene? Serve fortuna? Cosa occorre oltre alla presa della propria storia, al suo direzionamento? … Troppe domande rendendo liscia l’anima, che scivola qua e là, travolta dagli eventi. Ci vorrebbe un’anima secca, forte, per fermarsi e decidere. Chiediamo un po’ di silenzio, allontaniamo la brama di sapere cosa accade, e chiariamoci, prima: “a me, cosa accade, e come possiamo comportarci di fronte a questi eventi dolorosi che ci circondano?” A me cosa accade… Mi trovo su una strada bianca, di ciottoli puliti, pronto ad attraversare il fitto bosco della vita, che nasconde tante avversità, radure bellissime e altri esseri, ma non ho con me quella gaiezza, quella passione che dovrebbe derivare dal dire “Sì” a questo viaggio… L’entusiasmo c’è sempre stato, ma si dissipa via via, perde energia: sballottandomi contro eventi e persone che sanno solo assorbire senza a loro volta spingere. Finiamo come l’essere parmenideo… Sfere immobili, inutili se non per dire “l’essere è e il non essere non è” ma a che scopo? Non lasciamo così nemmeno pace ai morti: non sono… Ma potrebbero ben essere una spinta invece, anzi, una delle più forti. Il clima è ozioso e capriccioso, e i venti che salgono dalle gole delle grotte da cui si comanda il mondo stropicciano i poveri uomini, esseri ai loro piedi che non sanno che partito prendere, o si risolvono nella troppa foga da un lato, o nella rinuncia pecorina dall’altro. E pensare che quelle grotte dovrebbero rappresentare una vetta, un luogo sicuro e fidato… Ma no, questo orami non passa più nella testa di nessuno, non c’è più nemmeno spazio per il lamento. Esso si manifesta però in molte forme, poiché le anime non possono infine ignorare la loro estraniazione: terribili cose accadono allora, e come se mille aghi dall’interno spuntassero fuori, l’anima è tormentata e bela, o infuria, calpesta. Quanto vorrei non vedere queste cose, ma eppure, vedendole, non posso fare altro che prestare fede al mio giuramento alla terra: si deve esprimere un giudizio, esporsi, manifestare la propria idea e proteggerla con tutto il corpo. Anche se è difficile esprimersi e persuadere un’immagine, si deve avere la forza ed il coraggio di darsi da fare, in ogni modo. Urlare al vento… Un vento non futile, ma di trasporto, come una lanterna accesa che richiama l’attenzione del compagno: “dove sei, vieni in mio aiuto?” E ce ne sono tanti di compagni, alcuni mascherati, ma al nostro richiamo dovrebbero gettare la maschera, e riconoscere il loro riflesso nelle specchio dal vero sè, dice un bambino. Piangendo lo prendo tra le mie braccia ed esco, vado a vedere, racconto storie, storie vere, senza perdere l’abitudine di tener d’occhio il sole: sorge e cala, ogni giorno. E ogni giorno che sorge e cala, si consuma pian piano una candela. Stranamente sempre quella più bella cade per prima, come se la sorte fosse malvagia. “Egli persuase la necessità a condurre verso il proprio meglio la maggior parte delle cose” (il Demiurgo, nel Timeo) solo la maggior parte… Perché non tutte? C’è una necessità che tira l’uomo forse, a scegliere coscientemente il male? Ma no, non è così che stanno le cose. Noi possiamo scegliere, solo, spesso, ci prendiamo una “vacanza” diciamo, “per una volta…” ma questo è errato. Qui noi formiamo uno stato abituale, ci proviamo della possibilità di agire virtuosamente, — non dico sempre, per varie ragioni, non brutte, ma proprie dell’uomo: passioni, errori, debolezze di un momento, ma… Quando si dice “per una volta” non ci sono scuse, si perde di fronte all’onestà del sè. Piuttosto è meglio rimandare, affrancarsi e poi agire, ma evitare di scegliere e di giudicare: questo è il male — stiamo fallendo come spiriti liberi. Diventiamo schiavi di noi stessi, ma di quale noi? Questa è la giusta domanda. Non abbiamo una sola voce, e la nostra voce è, come un accordo, il risultato di almeno tre suoni — stranamente, sono proprio tre: es, io e super io; anima razionale, irascibile e concupiscibile — eppure l’accordo è uno, è armonia: perciò non si deve seguire una nota più che un’altra, ma essere sempre in pace sulle proprie corde. Abbiamo davanti a noi un’ultima scelta a questo punto, siamo agli sgoccioli, guardate attorno: o accettiamo di cantare in modo intonato o accettiamo di perire. Cantar bene significa saper vedere il mondo in modo attento, fitto, saper prendere la decisione di percorrere una certa strada e pensarci bene a questa strada, perché il tempo non vaga all’infinito insieme a noi, ma per un solo tratto ci segue. Saper esprimere un giudizio e saperlo esprimere in primis su di noi, costruire rapporti con altri che suonino bene con noi, ed allontanarsi da chi suona male, ma non lasciarlo solo — anche se per adesso è il contrario in qualche modo — in questo modo forse usciremo da questo vacillare? Proviamoci: prendiamo in mano le corde, le redini della nostra esistenza e vediamo di condurre un certo tipo di vita relativa a sè ed agli altri: la fantasia di un bambino, contro il meccanismo di un mondo… “Howard Roark rise” (prime parole di: “La fonte meravigliosa, di Ayn Rand. Libro che consiglio con tutto me stesso)

Intermezzo

La fuoriuscita da sè dell’essere è un’odissea davvero ardua, ci sono tanti ostacoli e insidie sulla strada, ma infine, senza che nessuno se l’aspetti, ecco che come una balena, il sè emerge dagli abissi dell’anima: salta e batte la schiena in un grande frenire d’acqua. Lo sfiatatoio spinge, come una corolla celeste, il vapore che la balena conservava nel suo cuore fino alle più alte estremità del viso… Ed ecco che, per un istante, si è davvero autentici: emerge con potenza la vergogna, l’imbarazzo, il pudore o la soddisfazione, — quest’ultima viene però, a volte, già falsata nel suo nascere dalla modestia, ovvero da un’orgoglio smodato — queste sensazioni che mettono a nudo il soggetto, sono suscitate dalla sincerità, sia di chi agisce, che di chi subisce: infatti quando qualcuno ci fa un complimento possiamo arrossire, e mostrare imbarazzo insieme a una certa contentezza, ma solo un complimento sincero, frutto di un’apertura del giudizio da parte del nostro amico verso di noi, può far emergere l’apertura, la semplicità, l’autenticità. Invece un complimento fatto per lusingare o per altri fini, o semplicemente per nulla, ma comunque non davvero sincero, non susciterà mai questa fuoriuscita. Anche nel caso della vergogna, solo un richiamo davvero serio e che fa presa sui fatti induce la nostra autenticità ad emergere, con un tiepido calore alle gote, e lo spostamento dello sguardo. È solo un guizzo, poi la balena scompare sott’acqua, salutandoci — si spera sempre non sia un addio… Anche se gli addii hanno il loro fascino, la loro magia: sono come sfere di cristallo che lasciamo cadere a terra, solo che la loro esplosione in frammenti e il suono cristallino che prosciuga il silenzio dentro di noi, non può mai cessare, mai per sempre — con la coda: un ultimo giocoso spruzzo d’acqua che investe fresca il viso del vero noi. La balena emerge per prendere il respiro, infatti negli abissi della nostra vita comune, non possiamo noi certo restare in asfissia, anche se molti ormai come morti viventi si trascinano sul fondo del mare, o a pelo d’acqua marciscenti. Esplorare gli abissi più profondi e trasportare in superficie il vapore delle nostre emozioni, del nostro autentico sè… È forse questo il senso del famoso detto dell’oracolo di Delfi “γνωθι σεαυτον” [conosci te stesso] ? È necessario ripensare il mondo antico, siamo davvero noi così moderni? “Non mi pare” 

I discorso

Un uomo non può avercela con nessuno se prima non si è misurato con se stesso. Altrimenti si dirigerebbe in una via oscura, una via tanto più impervia ed aspra quanto meno ha dialogato con il proprio sè, il proprio carattere, il proprio δαίμων [daimon, io interpreto, lo spirito guida che dimora in ciascuno di noi e ha a che fare con il nostro comportamento, soprattutto quello etico. Id est il sè autentico di ciascuno, che nonostante le apparenze è spesso sonnecchiante, e ci vogliono in questi casi scossoni molto forti per risvegliare la sua disapprovazione. Ma tenendolo attivo e allenato al giudizio, otterremo una farfalla con la potenza di un leone]. Perciò si deve parlare con se stessi e interrogarsi su quello che stiamo facendo, questo anche nel momento stesso in cui giudichiamo: stiamo solo puntando il dito e siamo buoni solo a criticare, o ci sono le giuste ali attaccate al nostro pensiero? Ali che sono abbastanza leggere da volare poiché libere dal peso della presunzione e dell’ignoranza, ma che sanno colpire il giusto punto per cambiare le cose. Infatti non si deve volare troppo in alto, oppure saremmo legati al piano solo ideale, — questo è un piano importantissimo, amabile e imprescindibile che tutti devono coltivare nella loro esistenza privata per volgersi al meglio, per avere un’autentica tensione alla vita, alla giustizia e al bene. Mai potrò deliberare e scegliere di abbandonare questo piano, sono convintissimo che l’idea, il sogno, la passione sono elementi fondamentali, molto più che la barbara realtà e la lucida ragione. Infatti senza emozioni che sarebbe l’uomo? E nella realtà, potremmo mai avere la poesia, la fiducia e la delicatezza dell’amore e dell’eroismo se ci abbandonassimo al mero calcolo? Non credo proprio. Perciò difendo con forza questa tesi e ne subisco le conseguenze… Giocate quanto volete, ma io so di agire al meglio delle mie possibilità e di tendere alla mia personale realizzazione nel quadro del genere umano sulla terra. — ma insieme non si deve restare a terra: sono le galline a restarsene a razzolare nel loro stesso sterco. E seppure sono animali che mi piace osservare, non sono comunque un buon esempio con la loro goffezza e ottusità — sapete a cosa mi riferisco, non è vero? — la via giusta da seguire è invece quella del volo nel cielo… Più su è un’aspirazione nobile e bella, necessaria al volo, ma che si potrà esaurire solo dopo lungo tempo e fatica. E non tutti desiderano andare oltre il cielo… Alcuni nemmeno s’azano da terra! Ed ecco che allora esiste la filosofia, — in particolare quella morale o ispirata da intenti critici verso qualcosa che manca di rispetto all’esistenza — la poesia, la letteratura, la scienza — una scienza attenta alle discipline che le stanno vicine e da esse  sorvegliata mentre a sua volta sorveglia — e tutte le belle arti, (per convenzione le chiamerò arti della vita): sono come maestri benevoli che si prendono cura dell’uomo e lo spingono ad agire in maniera corretta ed utile per tutti, oltre che per sè— ed in primis per sè, questo è da sottolineare, un uomo buono non vive sacrificandosi per nessuno, piuttosto dona ai suoi simili ciò che sa potrà aiutarli, una volta che ha plasmato il suo fine e ne è felice, conscio che anche loro faranno lo stesso con lui, ma non tanto per lo scambio, piuttosto per la fiducia che ha in loro. Insieme al desiderio che ha di vedere i suoi vicini nel più alto posto possibile essi possano occupare con la loro abilità. Ama vederli, e necessariamente vedersi, all’opera mentre costruiscono la loro vita, e ogni aiuto che può dare per questo spettacolo reciproco lo da ben volentieri — in questo modo rendono l’uomo in grado di fare qualcosa che l’animale non può fare: conoscere l’onestà e l’integrità necessarie a perseguire uno scopo determinato con mente e anima, per cui si vuole allora essere soddisfatti. In questo senso muovono l’uomo alla giustizia e all’attività che lo possono portare ad essere buono. Ciò sottende il lavorare con tutta la propria tenacia e forza, senza però danneggiare nessuno: questo sarebbe un negarsi la possibilità della soddisfazione finale. Abbiamo detto che le arti della vita rendono l’uomo capace di volare, se da tutto questo discorso non fosse chiaro il perché, è bene specificarlo ora, poiché mi preme molto. — questa non è assolutamente la mia ultima parola sull’argomento, sono i miei primi passi, ecco che gattono ancora, e forse sono già caduto qualche volta in queste poche righe… Ma si deve pur imparare a camminare, “a pensare con la propria testa” e qualche caduta come scotto la pago volentieri davanti a chiunque avrà da richiamarmi, dunque aiutarmi se dice bene — Dicendo questo intendo che quelle qualità che stimolano le arti della vita sono per l’uomo l’antidoto più connaturale a non far addormentare il proprio δαίμων. Esse infatti rendono necessaria un’attenta capacità visiva, che sappia assumere uno scopo per il proprio sè, e quindi lo conosca, ma d’altra parte, sappia anche guardare fuori di sè e si imponga l’impossibilità di supportare tutto ciò che appaia, davanti agli occhi di ogni uomo, di malvagio, ingiusto. Ma ingiusto rispetto a cosa? Ho detto in uno scritto precedente che non c’è giustizia o ingiustizia senza un criterio, e proprio qui non voglio parlare a vuoto. La giustizia di cui vorrei parlare è allora quella per cui ciascun uomo sulla terra tenta di spingersi al meglio delle sue possibilità, e ha fiducia negli altri esseri simili a lui, la giustizia per cui nessuno che abbia una buona abilità sia mai soverchiato da colui che ne ha meno — abilità vera, non l’inganno di chi ottiene una posizione che poi mostra con il suo operato concreto di non meritare — la giustizia che riguarda chiunque voglia dare ascolto alla natura e al canto degli uccelli, giorno e notte, la giustizia di chi corre in aiuto del suo compagno, perché sa che questa cooperazione potrà aiutare entrambi… Semplicemente, la giustizia che rassicura e fa risplendere di vita il legame di due che amandosi davvero, restano insieme in eterno. Come l’albero e il suo terreno: anche se il primo dovesse cadere, il secondo resterebbe sempre al suo posto, e pian piano i due si fonderebbero di nuovo. Anzi, il loro legame sarebbe ancor maggiore… Non più solo le radici nel terreno e il nutrimento di questo nell’albero, ma le due cose insieme: l’albero che si fa terriccio e che va ad arricchire e nutrire il terreno stesso: come un pegno dovuto, torna dalla sua amante, la terra, e sempre le resterà fedele. Molti fiori sbocceranno su quel terreno, mai e poi mai, potrei dubitarne. E giurerei il mio amore stesso, steso su quell’erba soffice con lei tra le braccia. Questa è la giustizia che, come un diamante, o una lanterna sprigionano la loro luce nel buio, rendendolo percepibile e a loro volta essendo percepibili grazie al buio. Una giustizia che prevede la purezza dell’equilibrio e dello scambio, la giustizia che guarda in faccia solo la lucentezza dello sforzo alla virtù e al bene, la giustizia che premia chiunque viva per amare.

Un giorno d’amare[8/03]

In questa festa ciò ch’è mancato è il volto: di donne, ne ho viste tante, dalle più adorne alle più sbarazzine… Ma spesso, proprio oggi, vedendo passare il fruscio delle loro vesti, la snellezza delle gambe sensualmente avvolte dalle calze… I capelli al vento, appena bagnati e abbelliti dalla pioggia — la calma delle mani che affondano nell’erba appena bagnata dalla rugiada… Ed ogni filo ha il suo profumo: indimenticabile, come un fantasma si insinua nella coscienza, e non appena se ne avverte il sentore, ecco che tutta la bellezza nella sua particolarità appare: oh, quanto amo il profumo delle ragazze, il loro dolce profilo… È come il migliore dei vini, ed uno è sempre diverso dall’altro, ma altrettanto dolce al cuore — ciò che restava nascosto dalle spalle, o scongiurato da una svolta della via, era la cosa più importante: il loro volto. Come potevo amare, — amare la bellezza, o forse cadere proprio in quell’invasamento divino ch’è l’amore: così si legge nel Fedro, ed io lo ammetto — se non vedevo quella fantasticheria ch’è il volto di ciascuno, qui di ciascuna, ma non fissiamo paradigmi. Il volto è la raccolta della personalità di ogni persona, il centro da cui si dipana la bellezza, il copricapo dei capelli, il ricettacolo degli occhi… — oh, quanto mi son cari questi due elementi del volto… Insieme a nei, che possono, talvolta, adornare con franchezza e passionalità la sottile curva del mento, o dello zigomo di una bella donna, una donna da contemplare… Da mangiar cogl’occhi, tanto infiamma la nostra anima solo con quel minuto tratto — parte tutto dagli occhi, si sa, il Dolce stil nuovo aveva ragione, vedeva giusto e in accordo con l’amore. Mi dispiacque molto, dicevo, non vedere alcuni dei volti dai quali avrei potuto trarre ispirazione, indicati dalla postura, dal modo di camminare, dal vestito e dalle languide curve delle passanti, ma questo — appunto — era il meno. Io desideravo incontrare il loro sguardo, poiché una storia non si può proprio scrivere se non si sa vedere negli occhi l’altro se non si sa cantare la sua canzone, in duetto, dove ora uno ha il tema principale, ora l’altro… Non si può scrivere una storia senza un incrocio di diecimila sguardi — dico diecimila coccolato dalla tradizione indiana, dove si parla dell’universo, talvolta, come dei “diecimila esseri”, delle “diecimila creature”, connesse insieme da una rete di reciproca coimplicazione: un filo segreto che arieggia da ogni pupilla e suscita la bontà verso il proprio simile, la fiducia — Anche la bocca è fondamentale, il suo colore, il suo taglio e la sua morbidezza chiamano al bacio: l’Unione per cui due anime possono finalmente soddisfare il loro affanno, finalmente nascono le ali a loro proprie, che le portano, come un caldo vento, verso l’alto. E chi non si è sentito venir meno la terra sott’i piedi in un bacio davvero appassionato? Amate il loro sguardo, lasciatevi cullare dalla loro chioma, ascoltate le parole dell’amore, e amiate, amiate davvero, con tutta la vostra esistenza, poiché l’amore è il miracolo più grande. Il più grande davvero, e non basta amare l’amore: questo è fondamentale, l’amore è un sentimento che non può essere [di per sè] amato, richiede sempre il due, è un canto, un vento che appunto in quanto tale necessita di ritmo e intonazione, di aria calda ed aria fredda… Di un io e dell’altro [in quanto noi medesimi]. Anche in noi. Con questo non ho detto tutto sull’amore, ma festeggio per me una giornata che lo porta in modo speciale con sè, una giornata che dovrebbe ricordare a tutti, qualunque specie o genere appartengano — ma che importa, io sono io, prima di esser un uomo. Ciò che mi interessa è: sono un uomo buono? — il rispetto che va dato ad ogni vivente, in particolare a quello che si ama, senza mai far finta di dimenticarsene la natura.