Sempre noi

Vogliamo davvero tornare indietro nel tempo? O forse, forse non vogliamo noi che il presente sia uguale al passato? Oppure… Ci sono momenti che non dovrebbero mai finire, bibite che non dovrebbero mai finire, sigarette che non dovrebbero mai finire. Sono tutti oggetti densi, pretesti che sono sempre davanti ad una persona. E noi, anche noi siamo di fronte. Così lontani, così vicini, ciascuno con l’altro. Mille barriere che fanno a pezzi la nostra storia, i nostri intrecci, reti… E note. Ambivalenti parole che vogliono significare, non si fermano al dire e tentano di far breccia nella lettura di quegli occhi, non vogliono vedere, non vogliono afferrare. Vogliono solo ascoltare e far emergere. L’abisso: premessa e limite della profondità con la sua superficie, altezza rovesciata, due culmini. Il mio e il tuo, anche se siamo stanchi potremmo stare insime per sempre, in modo speciale, non solo un’occasione, non solo un legame. I tessitori di sogni non sono qui, sono appena sopra di noi e i fili che ad essi ci collegano sono nelle nostre mani, se loro ci muovono, noi muoviamo noi. Mai nessuno ha mai mollato del tutto quei fili, nessuno hai mai del tutto rinunciato alle nuvole, al cielo. Lo vedi nella ricerca di sguardi, in un’intesa che si sa e che da sola si inganna, implicata come è nel flusso delle cose. “Cose”Lignee presenze che bloccano la strada ma che non sono: come le stelle nel cielo. Sì, le vedo, ma se avanzassi retto non mi scontrerei ad ogni passo con esse, c’è spazio. Solo infine arderei. 

Se chiudo gli occhi vedo ancora tutto. Non voglio tornare nel passato, non voglio che sia simile al presente. Non è possibile che il presente sia eterno, ogni giorno ha la sua specialità e cambia. Come una linea melodica, possiamo ascoltarla mille e mille volte, imparare l’atmosfera di ogni giorno e improvvisare su quegli elementi che ci stanno di fronte. E domani? Non so. Intravedo alcuni accordi, posso prepararmi. Posso programmare, proiettarmi e imparare ad affrontare il futuro. Ma la sua luce sarà sempre qualcosa di particolare, qualcosa di diverso, nuovo. Bellissimo. Non c’è routine che tenga all’occhio accorto e un giorno sarà completamente diverso, 

“potrà mai dirsi in qualche modo identico ciò che è completamente diverso?”

“Certo che no”

È. Sarà. Sempre noi, 
Il grano ondeggia leggero, carezziamo i suoi frutti e sapremo subito se il rischio di pungersi con le spighe è dorato o macchiato di sangue
Noi lo scegliamo.

Occhi.

I suoi occhi erano brillanti, verdi quasi quanto quegl’altri, quelli in cui, specchiandosi, aveva visto, aveva capito il mare che separava ogni essere dalla sua fine. Un verde, che traspariva sotto al marrone chiaro, quasi giallastro, e la pupilla che rifletteva la sua figura, in piedi, davanti allo specchio. Le lacrime avevano colorato il suo respiro e la sua voce cantava più soave che mai, quanto un vino pregiato, innocente, scendeva, sempre più velata, nelle viscere della sua anima: anche i combattenti di maratona avevano temuto, anche loro avevano compreso il rischio al quale si esponevano, ma nel momento supremo, avevano fatto la loro scelta: sì, combatteremo per il valore, sì, noi ce la faremo, mai la Persia agguanterà la Grecia… Mai l’alba dell’ultimo giorno vedrà un uomo piangere per le sue pene, si deve correre più veloci della paura, del timore. Si deve correre più veloci del successo, che intossica e ruba la vita dei nostri corifei. Non è quello infatti che cerchiamo, no, questa è un’altra illusione dell’uomo, di quel “deve” che maledice la sua natura, non è con il successo che ci si guadagna la felicità, la finalizzazione… Ma è con il valore, il coraggio e la pienezza di spirito che si può marciare trionfanti sui cadaveri dei nostri sospiri contorti. C’è la possibilità di fermarsi, di riprendere ciò che è nostro, ma mai dobbiamo disperderci nel flusso della storia ammagliante, che incatena. Uomini liberi, uomini che camminano con lo sguardo illuminato, che non sono forse ammantati d’oro, alcuni sì, altri no, ma tra loro si riconoscono con un tremito del cuore, tutto il resto trema sempre, ma come una foglia al vento, il respiro dei primi invece si mescola a quel vento, e dalle profondità degli abissi, alle altezze del cielo, è lo stesso delle aquile e delle balene.La sabbia del tempo scorre per tutti, rotola in ogni direzione, ma chi ha scelto di andare a Maratona, ha scelto di farsi proprio quel tempo, ha scelto una via diversa e sa quale sia la sua giusta canzone. La sente, la vede dinnanzi a sè, come il più semplice dei fenomeni: il giorno e la notte che si mescolano ed ecco che si fanno in uno, dietro alla grande porta di bronzo. Il desiderio di avere una vita splendente, che anche solo per un istante brilli dello sforzo e incarni la scintilla di ciò che non dipende più da nulla, se non da tutto ciò che è stato fatto, e dai propri alleati… Niente compromessi, niente imbrogli, niente malizie profittatrici: solo, un bimbo che ancora ingenuo, anche se vecchio come la terra, si stupisce di fronte ad ogni cosa particolare, ad ogni errore, ad ogni gioia.

Non capisco il vostro mondo, e quando scendo in esso sembro ridicolo, ma provate a salire da me, allora vedrete, non tutti rideranno, ma solo quelli che si rendono conto di esser privi di formazione… Ancora un ricordo antico, non io parlo ma vedo ciò che Platone intendeva. E capisco il suo vissuto. Forse non sarò mai di questo tempo, ma tenterò di formarmi come un uomo libero, un uomo amico, un uomo che negli occhi del suo vicino cerca solo la stessa luce che può intravedere nei suoi, e che sempre, insieme va alimentata… Lacrime prima della guerra, sono lacrime che sanno già che in fine, può esserci la vittoria.

Fedro

<questo è l’ultimo brano in cui mi ispiro a Platone, l’ho scritto circa un mese fa… Sono cambiate molte cose, ma è come l’alba di uno sforzo nuovo. Che già opera negli altri miei ultimi brani, lo voglio porre qui, come segno del mio percorso. Buon viaggio cari viandanti>

C’era una volta, in un paese lontano, in un tempo in qualche modo vicino un banditore. Era un tipo speciale, sempre vestito da aedo, con un portamento maestoso. Si scomponeva solo quando dava il suo spettacolo. Capitava infatti a volte di vederlo di fronte ad un monte, un fiume o una distesa di campi dorati: lì pretendeva di dare spettacolo. Indicava il panorama, gridando “venghino signori! Venite a vedere le meraviglie della natura, fermatevi qui con me a dare un’occhio al panorama, ma che occhio! Diamoci una mano, due gambe e tre capelli!” Poi, quando aveva raccolto abbastanza gente, si gettavano in mezzo alla natura e giocavano a prendersi, o a rincorrersi. Erano come invasati agli occhi dei passanti, ma parevano divertirsi un mondo. Così parecchi avevano voluto provare questa sorta di rito e ormai moltissimi seguivano il banditore, ma nessuno sapeva dove si sarebbe fermato la prossima volta. A volte capitava di trovarlo durante i propri viaggi, che camminava pensieroso per la strada. Si fermava sempre incrociando l’amico e lo salutava gaiamente, con un gran inchino, poi proseguiva verso il “dove”, come diceva lui. Era un individuo enigmatico e allettante! A volte poi si fermava con qualche persona incontrata per strada e discuteva, a viso aperto su vari problemi, problemi reali, infatti non si interessava per nulla di tutto ciò che era vagamente legato alle cose che le persone credono buone… Invece andava sempre in cerca di qualcosa di nuovo, o forse, come diceva lui “Di riconosciuto ma di non conosciuto e ricordato”. Un giorno il banditore si trovava in una regione costiera, con alte scogliere che sembravano esser state strappate direttamente dalla costa: aguzze e frastagliate tangenti che si infrangevano nel mare spumeggiante: cascate di terra cristallizzata che schianta sul sale dell’oceano infrangendolo per finire dolcemente dentro di lui, in profondità, accoccolate sul fondo sabbioso. Era incantato da questa visione e invitava tutti a dare un’occhiata. Chiedeva anche ai passanti di provare a descrivere quello che sentivano, quello che vedevano, ma di nessuno era soddisfatto. Decise così di gettarsi anch’egli nelle profondità dell’oceano: un tuffo eterno, seilenzio… Il vento è piacevole da quassù, vedo i gabbiani che volano sopra di me, l’acqua si avvicina, ne sento il profumo e la dolce voce di richiamo… Poi l’impatto: suono d’immersione amplificato all’agghiaccio, schizzi rossi che si sollevano, nessun lamento e… La riemersione, il nuoto verso riva! Era vivo, troppo vivo per quella caduta, pensarono gli uomini che lo avevano veduto cadere. Da quel momento nessuno ne seppe più nulla, ma si dice che in una grotta, poco lontana dalla spiaggia in cui tutti lo videro chiaramente approdare, si possa talvolta udire il suo canto. Il suo cadavere? Se esiste non è su questa terra, dove sia andato dopo tutti questi anni nessuno lo sa. Certo è che a volte c’è ancora gente che corre gaia e serena nei luoghi in cui si fermava a declamare, e c’è persino chi giura di averlo rivisto proprio in quei luoghi, come un fantasma? Non proprio, dicono “come un ritornante”. “Ma tutti si ricordavano di lui e si interrogavano sulla sua storia?” Non esattamente, per alcun tempo ci fu una sorta di caccia alla sua figura, tutti erano smaniosi di sapere se fosse davvero sopravvissuto con tutti i suoi soliti inviti a guardare e vivere a contatto con l’ambiente, a curarsi del sè e a cantare insieme a chi ci stava a cuore. Poi quando questi si stancarono di cercarlo restarono le testimonianze di chi lo aveva visto, chi ci aveva persino parlato, ma nulla di preciso. 
Io lo conoscevo bene quel viandante e spesso avevo condiviso con lui la strada, solo non avevo saputo mai compiere fino in fondo il suo cammino, non lo avevo compreso bene, o forse non riuscivo a seguirlo? Dovevo forse ricominciare da zero? Meglio cento giorni ben vissuti che un anno o più fitti di inganno. Andai allora nella grotta dove dicevano si fosse rifugiato dopo la sua scomparsa nel mondo dei vivi. Vi dirò la verità: io quel giorno entrando sentii qualcuno che mi chiamava, era proprio lui! Mi aveva riconosciuto e veniva ad accogliermi, maestoso come sempre, con un sorriso davvero umano sul viso, ma non era “troppo umano”, no, era davvero umano! Mi prese il braccio e parlando gentilmente mi condusse verso il fondo dell’altro: c’era un fuoco che proiettava sul fond della caverna le nostre ombre tremanti, meglio, la mia sembrava così piccola e labile in confronto alla sua… Ci sedemmo con la schiena rivolta verso l’apertura, le gambe incrociate, tranquilli a guardare la semioscurità illuminata dal fuoco e dalla luce del sole alle nostre spalle, che filtrava accarezzando l’aria della caverna. Dopo un po’ di silenzio, quando la mia ombra si fu completamente abituata all’ambiente e anche il mio respiro ormai era tutt’uno con il vento, l’aedo prese a parlarmi. Sorrideva sicuro ed i suoi occhi splendevano di un colore che non saprei descrivere: “Sei il benvenuto, o Fedro, spero che il tuo viaggio fin qui, la tua discesa, non sia stata troppo faticosa e irta di pericoli, ora che vedo che hai perso la tua lanterna… Sei qui per questo, non è vero?” “Sì, sono proprio qui per questo credo, ed è un grandissimo piacere incontrarti, aedo, è da parecchio tempo che non sento la tua voce e che non mi unisco ai tuoi giochi, sai, molti tentano di fare il tuo stesso mestiere là fuori, ma non è proprio la stessa cosa… Tutt’altra era il tuo teatro!” “Oh, me ne rammarico molto, Fedro, ma vedi, il fatto che ci provino è già una grande felicità per me, saranno uomini coraggiosi e belli quelli che si allenano su questa via e imparano qualcosa. Ma veniamo a te… Io vedo che tu sei piuttosto stanco e hai bisogno di cure, bene. Senti, quand’è l’ultima volta che hai dato un abbraccio sincero ad un amico?” “Non saprei dirlo, amico mio” “Lo vedo. Ciò che ti manca, Fedro, è un po’ di coraggio, non sei certo un vile, ma sei troppo concentrato in te stesso, dovresti invece aprirti al mondo… Giusto quel tanto di più che basta per andare da un tuo amico di cui ti fidi per abbracciarlo e parlare insieme a lui. Ecco, vieni qui, io ti saluto” mi avvicinai all’aedo che mi strinse appena, era qualcosa di strano, mi stava certamente abbracciando, ma sembrava che io fossi immerso in un fiume: l’acqua incontrando la mia figura si allargava e cingeva il mio spirito come purificandolo da tutti i dubbi e i pregiudizi che potessi avere… provai solo una cosa: il sincero. Lo strinsi a mia volta, appena, come stava facendo lui… Quando ci fummo separati tornammo ai nostri posti, mi disse “Vedo che hai compreso ciò che intendevo, sembra strano che proprio io che non mi faccio vedere da tanti anni ti predichi di aprirti al mondo… Ma io sono qui da questa parte ormai, e aspetto chiunque voglia venire a trovarmi con grande contentezza, anche se in vero… Sono e non sono. Ti spiegherò più chiaramente visto che vedo che non capisci, giustamente, immagino. Io ho sbagliato, ho deciso di abbandonare l’uomo e di rimescolarmi prematuramente nella natura. Ero desideroso di rivivere nei campi, nel soffio del vento, in ogni mio amico che si fosse ricordato di me, ma il dio rimproverandomi per questo decise di chiudermi in questo antro affinché continuassi ad esser uomo, pur essendo natura. Così sono qui da molto tempo ormai e chiunque passa per queste gole lo accolgo in questa mia dimora per liberarlo, proprio come te…” “Liberarlo…” “Sì, Fedro, liberarlo da inutili paure, dal terrore che percuote l’uomo: la solitudine, che lo spinge a volte in spelonche molto più buie di questa. Lo invito invece a partire, a prendere in considerazione il proprio sè autentico! Sai, in noi ci sono molteplici parti, che se ben accordate producono un suono bellissimo, quando invece c’è qualche granello di sporcizia o le parti non sono ben combinate, il nostro canto è come quello di cigni: bellissimi uomini che cantano sgraziatamente, se non prima di morire, quando esprimono il loro più bel canto, poiché orami, le parti che sono più sensitive e indovine di noi, hanno già sentito il profumo della fine e allora, insieme, tutte provano cordoglio e si chiedono se saranno ancora insieme. Ma io devo ancora dirti di quali parti si tratta. Bene, considera questo come un discorso verosimile, non vero, perché è l’argomento che governa la più o meno verità del discorso su di esso, e di questi elementi — se vuoi chiamali nel loro insieme anima — nessuno sa nulla di certo. Devi sapere dunque che dentro di noi vivono tre oggetti in comunicazione tra loro: una sorta di stanza, che contiene un blocco, un cubo di qualche materiale simile al ghiaccio e una fontana che con il suo getto tiene il cubo in equilibrio e sollevato dal pavimento della stanza, che però non è bagnato, quello della fontana è infatti una sorta di fumo evanescente ma molto intenso a toccarlo. Questi tre elementi sono rispettivamente il nostro carattere superficiale: il noi che osserva se stessi — quello che contiene, dico — e può parlarci, dialogarci a volte interrogandolo, a volte costringendosi a rispondere. La fontana è il flusso della volontà, dei desideri e della verità. Il cubo posto sopra essa è come il nostro giudizio accorto, è il principale interlocutore della stanza, e a volte la consiglia su come agire o su che dire, su cosa deve pensare… Il fatto è però questo: il cubo e la fontana sono in un rapporto strettissimo: uno con il suo peso schiaccia la il flusso ascendente e tenta di stare in equilibrio, l’altra spinge in alto il cubo e lo fa traballare a volte gridando a volte pretendendo, a volte indignandosi o approvando con gran forza l’operato dei tre insieme. La fonte è il cubo discutono spesso e volentieri, e quando la fonte è troppo pressata a volte compie il suo moto con gran forza e fa pericolosamente traballare il cubo, che allora si schiera dalla sua parte e comunica alla stanza il messaggio segreto che sale dalle nostre profondità.  Ora, quando le tre parti, come dicevo, sono in armonia la stanza è pulita e ricca di ordine, la fonte spumeggia in modo vivo e costante sollevando il cubo sino a mezza altezza della stanza, ma senza fargli perdere l’equilibrio: in questa condizione noi siamo perfettamente in pace con noi stessi: vediamo e sentiamo chiaramente il messaggio del cubo, che tiene conto felicemente anche del messaggio della fonte e ce lo comunica, così che noi possiamo decidere cosa fare e come comportarci in maniera assolutamente calma e sentita. Lo stato di equilibrio non si mantiene però facilmente, o Fedro, infatti la fonte è molto capricciosa agli eventi, e il cubo piuttosto pesante da sorreggere, così ci si deve impegnare, con il proprio sè a discorrere spesso e volentieri con gli altri due, così da mantenere l’autenticità della propria persona. Chi si lascia distrarre dagli eventi e taciturno osserva lo spettacolo: la guerra dentro di sè come specchio della guerra di fuori, non potrà mai accedere alla felicità, al bene compiuto con coscienza e con cuore leggero.” “Perciò, o Fedro, se vuoi tornare ad essere ancora felice e onesto con te stesso, ricorda questo mio piccolo mito e cerca di occuparti tanto del giudizio che del sentimento, vivi sognando ma vedi accanto al sogno insieme anche il mondo vero, non perderlo di vista, ma sappi invece che non è un obbligo nè un divieto. E cerca di avere ancora più fede negli uomini, gira il mondo se puoi, nascnde cose meravigliose in ogni angolo e diffondi la tua storia, il tuo ed il mio gioco! Infatti tutti dovrebbero seguire a tendere, a guardare verso qualcosa. Tutti dovrebbero sapere che non si può giocare con il proprio sè, solo con le cose e con i propri amici è bene scherzare in modo serio. E ridi, sorridi Fedro, che il tempo è ancora tutto tuo su questa terra. Come ultimo consiglio, o Fedro, ama, ama davvero: questo è uno dei sentimenti che tengono tutta la tua interezza in armonia e passione, in attività, non scegliere mai di amare per finta, o non amare mai in frazioni come quelle su cui discutono i matematici, ama invece per intero perché due diviso per due risulti uno.” “E Fedro, mi raccomando, so che tu avevi in mente di relaizzare un certo sogno, e ti impegnavi moltissimo per quello, vedo che lo fai ancora, continua così, mio caro, insieme a tutto il resto.” Dopo che l’aedo smise di parlare mi accorsi che i miei occhi erano spalancati, come accecati da una luce fortissima lacrimavano e dovetti chiuderli. Quando li riaprii non c’era più nulla: la caverna era vuota, buia, calda matrice senza fuoco nè sole. Sentivo ancora sul mio corpo la corrente di quel fiume… Vacillante mi alzai e inizia la mia ascesa, non so quante volte mi girai indietro, speranzoso, con un sorriso gentile in viso, so solo che quando uscii alla vera luce il mondo non era più quello di prima: sorgeva un giorno nuovo, di primavera… Appena mi riabituai alla luce mi voltai e appoggia il mio bastone accanto all’apertura della caverna: era un bastone che conservavo da tempo, un dono di un vecchio amico… Poi sorridendo inizia ad avviarmi verso casa, sapevo perfettamente cosa avrei fatto lungo tutto il mio cammino. Il vento mi era favorevole e in un sussurro mi disse “Addio, mio caro Fedro, un giorno saremo di nuovo insieme, ora tocca a te essere insieme”… Non mi voltai, sapevo che non occorreva in quel momento, solo mi asciugai un’occhio e allungai il passo, maestoso.

Δημιουργός

Se io dico “la rosa era blu…” già ho costruito, ho plasmato una storia. Proprio come quell’artigiano, quel “dio” facitore, il demiurgo (Δημιουργός)… “Egli persuase la necessità a condurre verso il proprio meglio la maggior parte delle cose”. La maggior parte delle cose… Non tutte, così Platone spiega il male sulla terra. C’è qualcosa per i greci che è più fondamentale, persino degli dei (Δίος) quelli veri questa volta, come Zeus (Ζέυς). È la necessità, (Άνάγκη) il fato! E cosa esisteva prima dell’opera del Demiurgo, ovvero l’ordinamento della realtà? C’erano lo spazio: la sede del divenire; le idee, somme, invisibili agli occhi del corpo e proprie a quelli dell’anima, eterne ed immutabili; e gli eventi casuali. Il Demiurgo guardò alle idee nel suo lavoro, e non avrebbe potuto fare altrimenti. Dato “che era buono e voleva che tutto fosse simile a lui” creò prima l’anima dell’universo e poi l’universo fisico stesso, così che potesse essere governato secondo ragione. Le idee che sono implicate e compongono l’anima dell’universo sono quelle di uguaglianza differenza ed esistenza. Il Demiurgo per costruire tale anima si ispirò all’idea di creatura vivente, che conteneva in sè ogni genere ed ogni specie di vivente presente sulla terra. Questo mito di una straordinaria bellezza può mostrare quella naturale tendenza dell’uomo a cercare una spiegazione per ogni fenomeno, e soprattutto per il male. “Qual è la causa dell’essere due? È la partecipazione alla dualità” nulla di più semplice e sincero. Ogni cosa è un riflesso della sua idea corrispondente nello spazio. Ma le cose sensibili “sono copie imperfette dell’idea: pur aspirandogli le restano al di sotto”. È forse errato allora volgersi con tutta l’anima alle realtà ideali? Al tentativo di superare la necessità del fato? È forse scorretto vivere da eroi piuttosto che da copie manchevoli? Ciò che so è che questa necessità, questa tensione verso la giustizia, il bene, il bello… “E tutte quelle realtà a cui noi imprimiamo il sigillo “in sè” (καθ’αυτό)” dovrebbe venire tardi nel formarsi dell’umanità, ma in fondo non così tardi, già nel V sec a.C era emersa… E oggi? Noi cosa guardiamo? Forse sarebbe più corretto pensare cosa è bene, o lecito, se vogliamo, guardare. Se guardiamo l’idea saremo bollati come idealisti, sognatori, pazzi… —oh,— se guarderemo la realtà dovremo fare molta attenzione però: ci sono almeno tante realtà diverse quanti sono le nazioni che si affacciano sui diversi oceani, ci sono tante realtà quante i “comodi” che esistono. Ma l’idea… Forse dovremmo rivolgerci nuovamente alle idee e riordinare il mondo convincendo ancora la necessità a disporre la maggior parte delle cose nel loro modo migliore… Non parliamo di utopia però, ho detto la maggior parte, non certo tutte! Questo lo riconosco, è impossibile… (chi parla? Io sono ancora nel —oh,—) 

Al viandante 

[Occasione:                                   Questo sacchetto per le arance è perfetto, comodo… Proprio adatto al viandante. Infatti, ha una struttura a rete in plastica, molto resistente. Inoltre, — ed è la cosa più importante — ha delle praticissime maniglie, che permettono di trasportarle a mano, senza occupare lo zaino già pieno di altre avventure.]

Il viandante si siede sulla roccia fresca, levigata dal vento e dalle polveri del sole. Assaggia la terra che circola nell’aria. Assapora il caldo vento dell’estate al riparo dall’arsura sotto un basso arbusto secco, di quel giallo paglia che tanto illuminò la nostra giovinezza. E prima di ripartire lascia una moneta, l’appoggia lì, sulla sabbia, in bella mostra, lucente della sua speranza. Egli sa che un altro viandante passerà su quella traccia, un giorno o l’altro. Egli sa, che ogni viandante raccoglie con piacere una moneta lasciata lì, apposta per lui, e profondamente grato, ne lascia un’altra a sua volta, col sorriso sulle labbra, con gli occhi che rispecchiano la speranza di chi ha donato. Non un dono qualunque: un dono della fiducia, un dono della serenità: quel dono di chi, giunto al termine del suo primo viaggio, si volta indietro e sorride, vedendo che ciò che ha lasciato è stato raccolto e ben custodito, e che ogni altro viandante, vedendo ciò che è stato lasciato per lui, ha anch’esso donato: non importa il valore, lo scambio è comunque pari, se si parla della più nobile delle monete che ognuno può donare… E perché farlo? Potrebbe chiedere qualcuno, qualcuno che non è avvezzo al vivere, al vivere da viandante… Certamente noi risponderemmo: “Perché io credo con tutto me stesso, che ogni viandante sia buono, e voglia essere felice. Nessuno ha motivo di danneggiare o intralciare gli altri viandanti: siamo tutti sulla stessa rotta infine, e per questo ci supportiamo recirpocamente. Ognuno ha fiducia nell’altro, e sa che darà il meglio di sè per concludere il suo viaggio: in tutti miei notturni non ho mai visto spettacolo più magnifico e alto di questo. E desidero vederlo per sempre, perciò io lascio la moneta! Io, e ciascuno dei viandanti…

Una risposta, scritta a matita, veloce. Lasciata su un tavolo in una biblioteca. Nell’aria risuona quella musica: Chopin!
“Devi sapere che ogni viandante è nottivago anche di giorno! Ogni suo viaggio, ogni suo girovagare, è un notturno. E le monete che lasciamo nella notte, sono come le stelle: un punto di ritrovo, un orinetamento fisso e di fattura speciale costruito nella storia. È una preziosa amica la storia, fatene buon uso!”
Lessi avidamente quelle poche rapide parole, ma ne feci tesoro. Anche io potevo partire e tentare questo viaggio al buio, un viaggio pericoloso e pieno, in fondo, di fantasmi… Ma è giusto. Io vado d’accordo con i fantasmi, che sono della stessa razza dei nottivaghi. Quali fantasmi? Non mi va di parlarne in qualità di fantasmi, no, dirò piuttosto, che, come i fantasmi, queste cose sono “più vicine all’invisibile, all’immortale, all’indistruttibile e al divino” che tutte le altre cose dette reali. Esse sono: la fiducia, la speranza, il coraggio, la costanza, la libertà e lo splendore insieme alle tenebre. Ciascun uomo solo, se è viandante, può voltarsi in ogni dove, e vedrà allora un mondo invisibile ma vero. Sullo sfondo di questo ci sarà la realtà, ma solo guardando le due cose insieme si potrà davvero esser nottivaghi, altrimenti, si cadrà nella tomba dell’uomo reale. “La speranza è grande, e la ricompensa bella.” “Per chi crede che <le cose> stiano così, vale la pena di correre il rischio — giacchè questo rischio è bello“.

[le ultime tre parti tra “.” Sono tratte dal Fedone di Platone. Un ringraziamento speciale va proprio a Platone infatti, per avermi dato tanta ispirazione con una sola opera. Per conoscere la sua filosofia, vi raccomando tutti i dialoghi… Sono semplicemente Magnifici!]